Economia circolare: cos’è, vantaggi, normative ed esempi

Sempre con maggior frequenza si sente parlare di economia circolare e di cambio del paradigma produttivo. Anche il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) ha messo a disposizione, all’interno della missione 2, Rivoluzione verde e Transizione ecologica, 2,1 miliardi per “migliorare la capacità di gestione efficiente e sostenibile dei rifiuti e il paradigma dell’economia circolare”. Ma cosa si intende esattamente per economia circolare e perché è così importante perseguire questo modello di produzione e consumo?
L’economia classica è sempre stata basata su un sistema lineare che prevede l’estrazione delle risorse che sono utilizzate per produrre beni, i quali a fine vita (quindi quando non servono più, o sono stati in parte consumati) sono buttati. Il limite di questo tipo di processo è che le risorse sul pianeta sono finite e che il tasso a cui le abbiamo e le stiamo consumando e più veloce rispetto alla capacità di tali risorse di rigenerarsi. Inoltre, la produzione di scarti genera inquinamento nocivo per gli esseri viventi e rifiuti sempre più difficili da smaltire.
L’economia circolare è un sistema, invece, che permette di massimizzare il valore dei prodotti, dei materiali e delle risorse perché spinge a utilizzarli il più a lungo possibile e di minimizzare o eliminare i rifiuti e/o gli scarti, i quali sono visti come risorse, input, per cicli produttivi differenti rispetto a quello iniziale.
“Un’economia circolare è un sistema che mantiene il valore di prodotti, materiali e risorse nell’economia il più a lungo possibile e riduce al minimo la produzione di rifiuti. Significa quindi un sistema in cui i prodotti vengono riutilizzati, riparati, rigenerati o riciclati”, si legge nel glossario ufficiale pubblicato dalle istituzioni dell’Unione europea. Che ricorda come “le azioni legate all’economia circolare contribuiscono anche ad altre priorità fondamentali dell’Unione europea, tra cui una ripresa verde, la mitigazione dei cambiamenti climatici e il risparmio energetico, la tutela della biodiversità e gli sforzi globali per lo sviluppo sostenibile”.
Tra le prime e più celebri realtà che finanziano progetti di economia circolare c’è la Ellen MacArthur Foundation, che ha sede a Chicago e prende il nome dalla co-fondatrice, una celebre velista. “L’economia circolare – si legge nel suo sito – è un sistema in cui i materiali non diventano mai rifiuti e la natura viene rigenerata. In un’economia circolare, i prodotti e i materiali restano in circolazione grazie a processi come la manutenzione, il riutilizzo, la riparazione, il ricondizionamento, il riciclo e il compostaggio”.
“L’economia circolare affronta i cambiamenti climatici e altre sfide globali – come la perdita di biodiversità, i rifiuti e l’inquinamento – disaccoppiando l’attività economica dal consumo di risorse finite”, continua la definizione. Descritta come un sistema “resiliente e vantaggioso”, l’economia circolare si basa su tre principi definiti fin dalla fase di progettazione: “eliminare rifiuti e inquinamento, mantenere i prodotti e i materiali in uso (al loro massimo valore) e rigenerare la natura”.
Come già accennato, il modello economico lineare è stato quello dominante per gli ultimi decenni. Considera la natura come un bacino di risorse da sfruttare per il consumo dell’uomo, applicando un modello estrattivo: “prendi, produci, usa e butta via”. Al termine del suo ciclo di vita, il bene diventa un rifiuto e dunque va smaltito. L’economia circolare non si limita – come molti pensano – a riciclare il rifiuto, ma agisce anche e soprattutto a monte, impostando il modello di produzione e consumo in modo tale da ridurre il consumo di risorse necessarie per produrre il bene, mantenerlo in circolazione il più a lungo possibile e dargli una seconda vita (o più di una). Mentre l’economia lineare esaurisce e degrada, quella circolare rigenera e conserva.
Questo cambio di paradigma si impernia su cinque principi chiave che guidano la progettazione, la produzione e l’organizzazione dei modelli di business.
Secondo lo studio Ecodesign your future, fino all’80% dell’impatto ambientale di un prodotto si determina già durante la progettazione. È per questo che l’approccio circolare deve entrare in gioco già in questa fase, adottando gli accorgimenti necessari affinché siano durevoli e possano essere riparati, disassemblati, trasformati, rigenerati e riciclati.
Nell’economia circolare il riciclo è un’ipotesi da prendere in considerazione solo negli sporadici casi in cui non c’è altra soluzione possibile. La progettazione, infatti, cerca di evitare a monte che si generino rifiuti: ciò richiede di ripensare la scelta dei materiali, i processi, i modelli d’uso, il packaging e i servizi accessori (come la riparazione o la sostituzione dei ricambi).
Nell’economia circolare i materiali devono restare in circolo il più a lungo possibile, attraverso cicli tecnici (come il riciclo, il riuso e il remanufacturing) e cicli biologici (come il compostaggio). L’obiettivo è quello di mantenere il valore dei prodotti e delle risorse nel tempo, riducendo il bisogno di estrarre nuove materie prime.
Per allungare la vita utile di beni e dispositivi, il primo pilastro è la qualità. Se i materiali sono durevoli e la progettazione è ragionata, i prodotti possono essere facilmente riparati, aggiornati o riconvertiti. È responsabilità dell’azienda fornire – gratuitamente o a costi accessibili – servizi di manutenzione, assistenza tecnica e aggiornamenti.
Un’altra strategia circolare è il passaggio dalla proprietà all’uso del bene. Invece di vendere un prodotto, le aziende possono offrire servizi: è il caso dello sharing di automobili, motorini, bici e monopattini, oppure del noleggio di abiti e attrezzature sportive, degli spazi di coworking. In questo modo si mettono in circolazione meno beni (che siano veicoli, oggetti o arredi) perché si fornisce alle persone un’alternativa (solitamente più economica) rispetto ad acquistarli e poi usarli per un tempo limitato.
Il modello dell’economia circolare si fonda su un approccio sistemico alla gestione delle risorse, in cui ogni fase del ciclo di vita dei prodotti è pensata per ridurre al minimo gli sprechi. Questo approccio può essere sintetizzato attraverso le 5 R: ridurre, riutilizzare, riciclare, raccogliere, recuperare.
La prima “R” è l’irrinunciabile punto di partenza. Ridurre significa limitare alla fonte la quantità di materiali e risorse utilizzate per produrre beni e servizi, con una progettazione che eviti gli sprechi. Significa anche scegliere materiali durevoli, efficienti e a basso impatto ambientale, ottimizzando i processi produttivi per consumare meno energia, acqua e materie prime.
Riutilizzare significa prolungare la vita utile degli oggetti, dando loro una seconda possibilità prima che diventino rifiuti. Può trattarsi di riutilizzo diretto (l’esempio classico è la borraccia al posto della bottiglia di plastica), oppure attraverso la riparazione o il riadattamento di prodotti e componenti. Il riutilizzo riduce la domanda di nuovi materiali e abbassa l’impronta ambientale complessiva.
Quando un prodotto non può più essere riutilizzato, entra in gioco la terza “R”: riciclare. Il riciclo permette di trasformare i rifiuti in nuove risorse, recuperando materiali come plastica, metalli, vetro o carta da reintrodurre nei cicli produttivi. Un sistema di riciclo efficiente richiede una corretta raccolta differenziata e tecnologie avanzate per separare e trattare i materiali in modo sicuro ed efficace.
La raccolta è una fase cruciale per garantire il corretto trattamento dei rifiuti e la loro successiva valorizzazione. Una raccolta ben organizzata, capillare e differenziata consente di separare i materiali recuperabili da quelli non riciclabili, facilitando il lavoro degli impianti di selezione e riducendo la quantità di scarti destinati alla discarica o all’incenerimento.
L’ultima “R” è recuperare, ovvero valorizzare ciò che non può essere né riutilizzato né riciclato, trasformandolo in energia o in altri materiali utili. È il caso del recupero energetico da rifiuti attraverso impianti di termovalorizzazione, o del recupero di sostanze chimiche o nutrienti. Una fase che permette di chiudere il cerchio e limitare gli scarti finali.
L’economia circolare, quindi, mette in atto strategie che allungano la vita e l’utilizzo delle materie prime, dei prodotti, dei differenti componenti e dei rifiuti. Si pensi, per esempio, ai capi di abbigliamento. Come evidenziato dalla Commissione europea, presentando le recenti proposte per rendere il settore tessile più sostenibile, in media un cittadino europeo getta 11 kg di prodotti tessili all’anno, e a livello globale, all’incirca un camion carico di vestiti viene portato in discarica o incenerito ogni secondo. Questo è uno spreco di risorse se si pensa che le fibre di cui sono fatti i capi possono essere riciclate e riutilizzate per dare vita a nuovi tessuti e rientrare nel ciclo produttivo dell’industria tessile.
O, ancora, si pensi al cibo. Ad oggi, stime dell’Unep (Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente) suggeriscono che circa tra l’8% e il 10% delle emissioni di gas serra sono associate al cibo gettato e non consumato (“food waste”). Utilizzando questi scarti nelle bioraffinerie, è possibile produrre biocombustibile da cui si può generare energia. Questo modo di ridisegnare il modello economico ha, pertanto, una serie di benefici tangibili, sia per le aziende che per l’ambiente.
Evitando di generare rifiuti, l’economia circolare riduce anche l’enorme impatto ambientale a essi associato. L’umanità produce complessivamente oltre 2 miliardi di tonnellate di rifiuti ogni anno e le proiezioni dicono che, a questo ritmo, si arriverà a 3,78 miliardi entro il 2030. Il 62% viene gestito dalle apposite strutture municipali: di questo 62%, il 19% è riciclato e il 30% finisce all’interno di discariche controllate. Il restante 38% del totale, però, viene bruciato o abbandonato nell’ambiente. Tutto questo ha un enorme impatto sulla salute degli ecosistemi, degli animali e delle persone. Le discariche sono anche fonti di CO2 e di altri gas serra, per la decomposizione del materiale organico. Pertanto, alcuni studi sostengono che l’applicazione delle strategie di economia circolare a cinque settori particolarmente impattanti (cemento, plastica, acciaio, alluminio e cibo) possa evitare l’emissione in atmosfera di 9,3 miliardi di tonnellate di CO2 equivalente. È all’incirca come azzerare l’impatto sul clima di tutti i mezzi di trasporto usati nel mondo.
Le risorse della Terra sono per lo più finite. Quanto più queste sono e saranno consumate, tendendo quindi a esaurirsi, tanto più aumentano e aumenteranno i prezzi. Come anticipato, il modello circolare permette di massimizzare l’uso delle risorse, riducendo al contempo i problemi di fornitura di materie prime, spesso in arrivo dall’estero e soggette a oscillazioni nei costi legati a fattori climatici, geopolitici e finanziari.
Secondo la Fondazione Ellen MacArthur, applicare il sistema economico circolare garantirebbe un risparmio annuale di 700 milioni di dollari sui costi dei materiali nell’industria dei beni di consumo in rapida evoluzione (fast moving).
Altro dato interessante è fornito ancora una volta dal Parlamento europeo, che stima come ricondizionare i veicoli commerciali leggeri anziché riciclarli potrebbe portare a un risparmio di materiale per 6,4 miliardi di euro all’anno (circa il 15% della spesa per materiali) e 140 milioni di euro in costi energetici, con una riduzione delle emissioni di gas serra pari a 6,3 milioni di tonnellate.
Secondo i dati forniti dal Parlamento europeo, la transizione verso un’economia più circolare può portare a un aumento del Pil dello 0,5%. Inoltre, il piano d’azione dell’Unione europea su questo fronte prevede un incremento dell’occupazione e stima che grazie all’economia circolare potrebbero esserci 700mila nuovi posti di lavoro entro il 2030.
Alla base del modello dell’economia circolare vi è un nuovo approccio che è abilitato dall’innovazione. In primis da quella tecnologica, necessaria per creare sinergie industriali e i legami tra “la fine e l’inizio” di differenti cicli produttivi oltre che per progettare nuove soluzioni per i materiali; ma anche dall’innovazione legislativa, essenziale per facilitare e permettere che quelli che ad oggi sono considerati rifiuti possano essere usati come nuove materie prime. Infine, da quella comportamentale, perché l’economia circolare abbraccia uno stile di consumo differente che deve essere agevolato anche, appunto, dai consumatori.
Sebbene questi concetti siano ormai consolidati, i numeri dicono che l’economia circolare è ancora ben lontana dall’essere il paradigma dominante. Stando al Circularity Gap Report 2025, nell’arco di un anno l’economia globale consuma 106 miliardi di tonnellate di materiali. Di questi, appena il 6,9% provengono da riciclo: una percentuale che addirittura cala di 2,2 punti percentuali rispetto al 2015. È vero infatti che la quantità di materiali riciclati è aumentata di 200 milioni di tonnellate tra il 2018 e il 2021: parallelamente, però, i consumi sono cresciuti a tal punto da vanificare del tutto questi progressi. Per impostare strategie efficaci e realistiche di transizione circolare è indispensabile prendere atto delle sfide – tecnologiche, economiche e culturali – da affrontare.
Molti settori industriali si trovano di fronte a limiti tecnici nella riconversione dei processi in ottica circolare: la scarsa disponibilità di materiali riciclati di qualità, le difficoltà nella separazione dei materiali compositi, la mancanza di tecnologie efficienti di recupero o di sistemi di reverse logistics sono solo alcuni esempi. A questo si aggiungono la mancanza di competenze specialistiche, soprattutto nelle piccole e medie imprese, e le resistenze culturali e organizzative.
La transizione verso l’economia circolare – spontanea o “spinta” della normative – può richiedere di riconvertire impianti, sperimentare nuovi modelli di business, fare ricerca e sviluppo su nuovi materiali o prodotti. Tutte attività che richiedono ingenti investimenti iniziali, spesso a fronte di risultati da valutare nel medio-lungo periodo. Le opportunità di accedere a fondi pubblici, o agevolazioni di vario tipo, possono compensare almeno in parte questo rischio imprenditoriale.
Affinché un settore possa dirsi maturo, servono definizioni, metriche e standard condivisi a livello internazionale. Solo così infatti le aziende possono misurare i propri progressi, mettersi a confronto con i competitor e comunicare in modo credibile le proprie performance. Tra gli strumenti che si stanno affermando ci sono la norma ISO 59010 (Circular Economy – Guidelines) e gli ESRS E5 funzionali alla rendicontazione di sostenibilità ai sensi della CSRD (Corporate Sustainability Reporting Directive).
Un simile cambio di paradigma richiede la partecipazione attiva delle imprese. Una partecipazione che, però, va coordinata e spronata dalle normative. Anche in questo campo l’Unione europea vuole fare da apripista.
L’Unione europea si è spesa in prima persona per far crescere l’economia circolare, attraverso sue Piani d’azione susseguitisi l’uno all’altro. Il primo si snodava dal 2016 al 2019 e prevedeva 54 azioni che sono state tutte portate a termine: tra queste ci sono, ad esempio, l’adozione di una metodologia unica per misurare lo spreco alimentare, i protocolli volontari per la gestione dei rifiuti da costruzione e demolizione, gli interventi contro i falsi green claim e così via. Il secondo Piano d’azione per l’economia circolare, lanciato a marzo 2020, le azioni sono 35 e vanno adottate progressivamente, senza una scadenza unitaria. Tra gli atti legislativi già entrati in vigore ci sono il regolamento Ecodesign per prodotti sostenibili (Espr), la direttiva Empowering che vieta i green claim ambigui e non verificabili, la direttiva che istituisce il diritto alla riparazione, il regolamento sui rifiuti da packaging (Ppwr), il regolamento sulle batterie.
Il secondo Piano d’azione per l’economia circolare si inserisce nella cornice del Green Deal europeo, il colossale piano di transizione verde che si pone come obiettivo primario l’azzeramento delle emissioni nette dell’Unione europea entro il 2050. All’indomani dell’annuncio del Green Deal, lo scoppio della pandemia ha rivoluzionato l’agenda politica senza però far tramontare le istanze ambientali. Anzi, la prima Commissione europea guidata da Ursula von der Leyen ha decretato che il 30% del fondo Next Generation Eu (il cosiddetto Recovery Plan) dovesse essere investito proprio per il Green Deal.
L’Italia, la maggiore destinataria di questi fondi, nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) destina 55,5 miliardi di euro alla missione Rivoluzione verde e transizione ecologica. Quest’ultima si occupa anche di economia circolare, con 600 milioni di euro per i progetti altamente innovativi per il trattamento e il riciclo dei rifiuti provenienti da filiere strategiche (come apparecchiature elettriche ed elettroniche, carta e cartone, tessile e plastiche) e 1,5 miliardi di euro per la realizzazione di nuovi impianti di gestione dei rifiuti e l’ammodernamento di quelli esistenti.
Le normative citate comportano una lunga serie di obblighi molto concreti per le imprese: tra i tanti, si possono citare ad esempio l’introduzione del passaporto digitale di prodotto, il divieto di distruggere il tessile invenduto e l’introduzione di criteri ambientali nelle gare d’appalto pubbliche, tutti previsti dal regolamento Ecodesign. Oltre agli obblighi normativi, anche le pressioni dei consumatori e degli investitori vanno in questa direzione.
Per applicare l’economia circolare in azienda non bastano iniziative spot: al contrario, serve un approccio integrato, olistico e basato sui dati. Si tratta di un’evoluzione radicale perché non si limita alla singola linea di prodotto ma richiede di ripensare anzitutto i processi e, talvolta, l’intero modello di business. È tuttavia l’unica strada in grado di garantire risultati – tanto ambientali quanto economici – reali e duraturi.
L’analisi del ciclo di vita (LCA, Life Cycle Assessment) si basa su una metodologia standardizzata a livello internazionale attraverso le norme ISO 14040 e ISO 14044. In sostanza, è la misurazione degli impatti ambientali associati a ogni fase di un prodotto o servizio, dal reperimento delle materie prime fino all’uso da parte dei consumatori e al fine vita. Questa mappatura consente alle aziende di individuare in modo mirato i punti critici sui quali intervenire, evitando di disperdere risorse per interventi destinati a restituire risultati marginale.
L’economia circolare non si limita alla progettazione e allo smaltimento dei prodotti ma entra nel merito dei modelli di business, trovando la sua espressione in pratiche come:
- lo sharing di veicoli (car sharing, bike sharing ecc) o di spazi (coworking);
- il product-as-a-service, cioè il noleggio o leasing;
- il recupero e la rigenerazione di componenti usati;
- l’offerta di servizi post-vendita come la riparazione.
Per strutturare in modo sistemico le strategie ambientali e dare credibilità esterna agli impegni in materia di economia circolare, le aziende possono dotarsi di certificazioni riconosciute a livello europeo o internazionale:
- ISO 14001: è la norma internazionale per i sistemi di gestione ambientale. Non impone specifici risultati ambientali, ma aiuta l’organizzazione a definire obiettivi, procedure e strumenti per monitorare e migliorare le proprie performance.
- Ecolabel UE: è il marchio europeo di qualità ecologica attribuito ai prodotti o servizi con ridotto impatto ambientale lungo il ciclo di vita. Riconosciuto in tutta l’Unione europea, è particolarmente diffuso nel settore tessile, turistico, dei detergenti e della carta.
Queste certificazioni sono utili anche in ottica di rendicontazione ESG, partecipazione a bandi pubblici e accesso a fondi europei per la transizione ecologica.
Sempre più numerosi sono gli esempi di economia circolare e delle iniziative che richiamano i suoi principi. Qui se ne presentano sette in particolare promossi da Barilla, Ikea, Too Good To Go, Lavazza, Patagonia, Econyl e Caviro.
Esempio “storico” è la collaborazione, nata nel 2014, tra Favini, produttore italiano di carta, e Barilla che ha dato vita al progetto “CartaCrusca”. Grazie a questa sinergia, Barilla recupera la crusca derivante dalla macinazione dei cereali utilizzati dall’azienda (grano, orzo, segale) e Favini la utilizza per produrre carta per il packaging di alcuni prodotti Barilla, tra cui quelli della “Selezione Italiana”.
La multinazionale svedese si è impegnata a diventare un business circolare entro il 2030. Per raggiungere tale obiettivo, la società mette in atto una serie di pratiche quali il recupero dei materiali e la rigenerazione dei prodotti che le permette di vantare già in commercio beni realizzati al 100% con scarti di produzione e materiali riciclati. I clienti hanno inoltre la possibilità di rivendere i propri mobili Ikea usati, che vengono poi reimmessi in commercio nel cosiddetto Angolo della circolarità. La catena mette inoltre a disposizione pezzi di ricambio e un servizio di riparazione dei moduli rotti.
Too Good To Go è l’app che combatte lo spreco alimentare. Attraverso la piattaforma è possibile prenotare una “surprise box”, cioè una confezione di cibo in eccesso rimasto in supermercati, panetterie, ristoranti e alimentari di vario genere. Così facendo, il punto vendita evita di gettare l’invenduto; il cliente, da parte sua, fa acquisti a prezzi fortemente scontati.
In collaborazione con Novamont, azienda chimica italiana attiva nel settore delle bioplastiche, Lavazza già dal 2015 ha prodotto una capsula biodegradabile che può essere conferita tra i rifiuti organici e diventare fertile compost, anche assieme al caffè esausto. Il percorso di ricerca e sviluppo è proseguito fino ad arrivare, nel 2025, al lancio di una tab composta solo ed esclusivamente da caffè macinato pressato, utilizzabile con una macchina appositamente studiata: una sorta di “capsula senza capsula” che non produce alcun rifiuto.
Patagonia è stata la prima azienda nel 1993 a produrre indumenti in pile utilizzando bottiglie di plastica riciclate (poliestere riciclato), riducendo la dipendenza dal petrolio come fonte di materia prima. Il marchio inoltre utilizza nylon riciclato, derivante da fibre di scarti post-industriali, filati e scarti di tessiture post-consumo, per produrre alcune delle sue giacche e alcuni indumenti tecnici.
Da alcuni anni, inoltre, il brand, ormai ambassador della sostenibilità in tutto il mondo, ha introdotto la “Garanzia Corazzata” che garantisce ai consumatori di riparare a zero spese (tranne quelle di spedizione locale per inviare il pacco al centro di raccolta regionale) gli indumenti che si rompono o che riscontrano problemi di qualità. Nel suo hub, Worn Wear, Patagonia prova a mantenere in vita i capi il più a lungo possibile, riparandoli e riciclandoli.
Econyl, prodotto di punta dell’azienda Aquafil, è un filo di nylon rigenerato prodotto recuperando, purificando e trasformando reti da pesca, scarti di tessuto, moquette usate e plastica industriale. Tutti materiali che, altrimenti, sarebbero stati destinati allo smaltimento o, peggio ancora, sarebbero rimasti dispersi in mare. Le caratteristiche sono identiche a quelle del nylon convenzionale, generato a partire dagli idrocarburi. Tra i marchi che hanno scelto Econyl per le proprie collezioni ci sono Prada, Arena, Stella McCartney, Burberry e Gucci.
Caviro, la cooperativa vitivinicola che conta 12.000 viticoltori in 7 regioni ed è nota soprattutto per il marchio Tavernello, ha da tempo introdotto i principi dell’economia circolare nel proprio modello produttivo. Gli scarti della lavorazione dell’uva, come vinacce e fecce, vengono raccolti insieme a sfalci e potature del verde rigenerandoli per ottenere – a seconda della tipologia di scarto e del processo impiegato – alcool etilico, acido tartarico naturale, estratti, fertilizzanti o energia. Questo ciclo virtuoso, iniziato con la raccolta e proseguito con la rigenerazione, si conclude con la restituzione: i prodotti ottenuti, infatti, vengono venduti oppure impiegati nei campi.
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