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Cittadinanza, la verità dietro il flop del referendum: l’Italia ha un problema con gli stranieri, anche a sinistra

Cittadinanza, la verità dietro il flop del referendum: l’Italia ha un problema con gli stranieri, anche a sinistra

Ora possiamo dirlo con amarezza: l’Italia non è pronta. Il nostro Paese non è pronto a riconoscere agli stranieri regolarmente residenti nella penisola, che qui lavorano e vivono, gli stessi diritti di chi nasce in Italia da cittadini italiani dopo un periodo congruo, più breve dell’attuale. Non siamo pronti, e non sono pronti, a vedere i dati del referendum, nemmeno gli elettori del centrosinistra che, si presume, a differenza di quelli del centrodestra, alle urne referendarie ci sono andati.

Il flop del quesito sulla cittadinanza

Se pensiamo infatti che a parità di quorum (per tutti e cinque i quesiti ha votato poco meno del 31% degli aventi diritto) quello sulla cittadinanza ha registrato il minor numero di sì (il 64% contro l’88% dei quesiti sul lavoro) allora la conclusione non può essere che su questo terreno le differenze tra l’elettore medio del Pd o di Sinistra Italiana e quello di Lega e Forza Italia non sono poi così marcate. Insomma, gli elettori di centrosinistra si sono dimostrati più pronti a difendere i diritti dei lavoratori che a riconoscere diritti ai colleghi stranieri. Una triste deduzione logica, che rende ancora più duro il risultato.

Cosa sarebbe cambiato in caso di vittoria

Segno dei tempi si direbbe. Eppure il quesito era molto chiaro, nella sua articolazione. Certamente molto più chiaro degli altri. Qualora fosse passato infatti sarebbero stati ridotti da 10 a 5 gli anni di residenza legale in Italia richiesti per poter avanzare la domanda di cittadinanza italiana che, una volta ottenuta, sarebbe stata automaticamente trasmessa ai propri figli e alle proprie figlie minorenni. Questa semplice modifica avrebbe rappresentato una conquista decisiva per la vita di molti cittadini di origine straniera, 1 milione e 420mila cittadini non comunitari, pari a oltre 1 ogni 4 stranieri regolarmente residenti in Italia. Cui vanno ad aggiungersi i rispettivi figli che, in caso di vittoria del sì, avrebbero ereditato la cittadinanza italiana dai genitori invece di dover aspettare di farne richiesta al compimento dei 18 anni.

Questo avrebbe permesso loro di partecipare agevolmente a percorsi di studio all’estero, poter votare, poter partecipare a concorsi pubblici come tutti gli altri cittadini italiani, rappresentare l’Italia nelle competizioni sportive senza restrizioni. Senza contare le piccole grandi discriminazioni, come la maggiore possibilità di incorrere in controlli, la maggiore difficoltà ad affittare una casa o trovare un lavoro stabile, dato che la precarietà esistenziale spinge ovviamente ad accettare condizioni di lavoro più precarie e di sicurezza inferiori.

Ius soli e Ius sanguinis

La vittoria del sì (che comunque avrebbe subordinato la cittadinanza al reddito, alla conoscenza della lingua e al casellario giudiziario pulito) non avrebbe introdotto, come qualcuno erroneamente ha voluto far pensare, lo ius soli che fa riferimento alla nascita sul "suolo", sul territorio dello Stato, contrapponendosi allo ius sanguinis, imperniato invece sull'elemento della discendenza o della filiazione. Per i paesi che applicano lo ius soli è cioè cittadino originario chi nasce sul territorio dello Stato, indipendentemente dalla cittadinanza posseduta dai genitori. In Italia, secondo la legge 91 del 1992 vige il principio dello ius sanguinis come unico mezzo di acquisto della cittadinanza a seguito della nascita, mentre l'acquisto automatico della cittadinanza iure soli continua a rimanere limitato ai figli di ignoti, di apolidi, o ai figli che non seguono la cittadinanza dei genitori. Esistono poi altri modi per acquistare la cittadinanza, come a iure communicatio, ossia la trasmissione all'interno della famiglia da un componente all'altro (matrimonio, riconoscimento o dichiarazione giudiziale di filiazione, adozione), il "beneficio di legge", allorché, in presenza di determinati presupposti, la concessione avvenga in modo automatico, senza necessità di specifica richiesta, e, infine, la "naturalizzazione". Questa comporta non una concessione automatica del nuovo status ma una valutazione discrezionale da parte degli organi e degli uffici statali competenti.

Lo status quo

Alla fine dunque chi si trova in Italia dovrà continuare a risiedere regolarmente per 10 anni prima di essere cittadino. Dieci anni in cui vivrà accanto a persone che avranno più diritti di lui o lei pur vivendo nello stesso Paese. Persone che lavorano, pagano le tasse, ma che non si vedono riconosciuti il diritto di essere come gli altri. Per i cittadini Ue, invece, rimane dunque l’attuale requisito dei 4 anni di residenza. Immutata anche la procedura di richiesta e ottenimento della cittadinanza, che oggi dura circa tre anni. Per gli altri, la speranza di vedere accorciare i tempi è sfumata. Non solo: il quorum non raggiunto e i “sì” appena sopra il 50 per cento rischiano di dare ulteriore forza a chi si oppone a ogni cambiamento in tema di cittadinanza, rappresentando quindi una specie di “mandato popolare” a non modificare nulla. Rimaniamo dunque molto lontani dagli altri grandi Paesi europei come la Francia, dove serve aver vissuto per cinque anni sul territorio senza interruzioni, avere un impiego e superare un esame di lingua e uno di storia francese. Anche in Germania dal 2024 per diventare cittadini servono cinque anni di soggiorno nel paese, un impiego o un reddito stabile e la conoscenza della lingua. In Spagna, infine, sono necessari dieci anni di residenza, che però si riducono ad appena due per le persone nate nei paesi dell’America Latina in cui si parla spagnolo.

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