Tutti i fronti di Netanyahu: offensiva su Gaza e occupazione in Siria
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Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, gatto dalle sette vite, non pone freni all’allargamento coatto dei confini di Israele. Non chiude alcun fronte, semmai li amplia, dalla Palestina alla Siria.
Non ha scrupoli a sfruttare i sentimenti di rabbia e vendetta che la riconsegna dei corpi della famiglia Bibas ha riacceso, riportando una buona parte di società israeliana al trauma e lo choc del 7 ottobre.
Come scriveva ieri su Haaretz Amos Harel, poco importa che Hamas non avesse intenzione di scambiare il corpo di Shiri Bibas con il cadavere di una donna palestinese, né che la famiglia fosse stata rapita da una gang criminale, i Lords of the Desert, e fosse stata recuperata solo dopo dal movimento islamico.
L’importante per Netanyahu è costruire «vie alternative come un’estensione della prima fase (della tregua) – aggiunge Arel – così che possa posporre (…) il pieno ritiro dalle forze israeliane dalla Striscia di Gaza e la fine della guerra».
L’OBIETTIVO non è per niente segreto, Netanyahu lo ha detto pubblicamente alla vigilia dell’entrata in vigore della tregua, il 19 gennaio scorso: l’offensiva sarebbe ripresa dopo la prima fase che termina, in teoria, il primo marzo. Estenderla significherebbe garantirsi il ritorno di qualche ostaggio in più dei 33 previsti (perché Hamas della tregua ha estremo bisogno) ma non tutti e 69 quelli da liberare nella seconda fase e di cui si stima che almeno la metà siano morti.
Guerra permanente su più fronti con un denominatore comune: occupare più terra possibile, in Cisgiordania, a Gaza, Siria, Libano. Nella Striscia le voci di una ripresa dell’offensiva, che potrebbe coincidere con il mese sacro di Ramadan (inizia venerdì), terrorizzano una comunità traumatizzata, privata di tutto e sottoposta a continue violazioni israeliane della tregua, a partire dal mancato ingresso di case mobili (15 sulle 60mila previste) e tende (20mila su 200mila).
La paura fa il paio con il dolore per il mancato ritorno a casa di 400 gazawi, di cui un centinaio di donne e bambini, catturati a Gaza dopo il 7 ottobre e detenuti senza accuse. La Cisgiordania condivide l’identica sofferenza: sabato notte le famiglie di cento prigionieri sono rimaste ad aspettare sotto la pioggia per ore prima di sentirsi dire da Netanyahu che non avrebbe rilasciato nessuno.
Ieri il ministro esponente dell’ultradestra, Bezalel Smotrich, ha rivendicato il suo ruolo nella violazione dell’accordo mentre la stampa israeliana dava conto di una nuova clausola: Israele libererà i 620 prigionieri palestinesi in cambio di uno scambio addizionale nelle prossime ore, i corpi di due ostaggi morti nella Striscia, e la fine delle “cerimonie” sul palco di Hamas.
IL MOVIMENTO ISLAMICO avrebbe accettato, facendo marcia indietro rispetto alle dichiarazioni del mattino: negoziati sulla seconda fase sospesi fino alla liberazione dei prigionieri di sabato scorso. Ad annunciarlo era stato Abdul Latif al-Qanou, portavoce di Hamas, che ha accusato Tel Aviv di violare ripetutamente l’accordo di gennaio al fine di farlo implodere.
Tra le violazioni più dolorose ci sono le uccisioni, oltre cento dal 19 gennaio, con i droni o per mano dei cecchini. Le ultime due vittime, ieri, che – con undici corpi recuperati tra domenica e lunedì – portano il bilancio accertato dal 7 ottobre a 48.340 palestinesi uccisi (altri 12-14mila i dispersi).
Netanyahu domenica ha parlato a ruota libera, mentre a Beirut si tenevano i funerali di Hassan Nasrallah ed Hezbollah si faceva forte di un milione di presenze.
Con i jet israeliani che volavano sopra la capitale libanese rompendo il muro del suono e violando – di nuovo – il cessate il fuoco, Netanyahu ribadiva l’intenzione di non lasciare il Libano del sud, non subito, né tanto meno il pezzo di Siria che ha occupato – nel silenzio internazionale – a dicembre, subito dopo la caduta del regime di Assad.
«NON PERMETTEREMO alle forze di Hayat Tahrir al-Sham né al nuovo esercito siriano di entrare nell’area a sud di Damasco», ha detto aggiungendo di puntare alla «piena demilitarizzazione del sud siriano dalle truppe siriane, nelle province di Quneitra, Daraa e Suwayda». Dal 1967 Israele ha occupato i due terzi delle Alture del Golan e da tre mesi la zona cuscinetto controllata dalle Nazioni unite, dove ha stabilito proprie base militari. Israele ci resterà, ha concluso Netanuahu, «per un tempo indefinito».
A Damasco il presidente auto-nominato Ahmad al-Sharaa tace, le piazze no: da ieri sono decine di migliaia a manifestare contro l’occupazione israeliana, a Swisah e Quneitra città occupate, a Daraa, a Khan Arnaba, a Busra. Lo slogan è unico: «La Siria è dei siriani».
ilmanifesto