La sorpresa della stabilità italiana


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Mentre in Francia e Regno Unito si evoca lo spettro del Fmi, i conti di Roma reggono e l’Italia diventa paradossalmente un’isola di affidabilità in Europa. Il rigore dei conti ripaga Meloni e rovescia il confronto con Parigi e Londra
Il tentativo di drammatizzare una situazione già di per sé complicata non ha funzionato molto bene. Dopo l’annuncio del primo ministro francese François Bayrou, che guida un governo di minoranza, di chiedere per l’8 settembre un voto di fiducia sull’aggiustamento fiscale da 44 miliardi necessario a contenere il deficit fuori controllo, il ministro dell’Economia Eric Lombard in un’intervista ha tentato di scuotere due volte l’opinione pubblica francese. Prima evocando l’orgoglio: “Scommetto che tra due settimane pagheremo il nostro debito più degli italiani ”, ha detto riferendosi alla progressiva riduzione dello spread tra Francia e Italia, che una volta era “il cattivo studente dell’Ue”. Poi evocando la paura: “Vogliamo evitare il rischio di un intervento del Fmi nel caso in cui il governo cada, ma non posso fare finta che questa eventualità non esista”. Le incaute parole del ministro dell’Economia hanno iniziato ad assumere il significato della profezia che si autoavvera, affossando sia la Borsa di Parigi sia i titoli di stato francesi, riducendo ulteriormente sotto i 10 punti lo spread con l’Italia e accelerando il sorpasso che – sempre nelle parole del ministro – spingerebbe la Francia “in coda ai 27, una posizione difficilmente sostenibile per la seconda economia dell’Eurozona”.
Dopo poche ore, Lombard ha dovuto fare una dichiarazione per tentare di spegnere l’incendio che aveva innescato: “A oggi non siamo minacciati da alcun intervento, né da parte del Fmi, né della Bce, né di alcuna organizzazione internazionale” ha scritto su X il ministro, ribadendo però che – sebbene l’economia francese sia solida – la situazione è delicata: “Pensare che la Francia sia, per sua natura, esente dal controllo del proprio debito e al riparo da ogni rischio è una favola”.
Il ricorso al Fmi negli ultimi giorni è stato evocato anche per il Regno Unito, dove il governo Starmer, nonostante un’ampissima maggioranza, non riesce a controllare spesa e indebitamento. Il Times, citando autorevoli economisti, ha parlato apertamente del rischio di una crisi analoga a quella del 1976, quando l’allora governo laburista di Callaghan fu costretto a chiedere un prestito al Fmi. Sembra assurdo, ma in questo contesto l’Italia di Meloni è un’oasi di stabilità politica e macroeconomica.
Il quadro internazionale – prima l’aumento del costo dell’energia e poi lo stesso sul commercio internazionale causato dai dazi di Trump – presagiva l’arrivo di una tempesta perfetta per un paese esportatore come l’Italia, che aveva un enorme deficit attorno all’8% e un abnorme debito pubblico in crescita sopra il 135%. Eppure, appena un mesetto fa, proprio il Fmi – ora richiamato per salvare Francia e Regno Unito – ha sostanzialmente promosso l’Italia proprio per la sua politica fiscale elogiando “la solida performance fiscale dello scorso anno e il ritorno a un avanzo primario”.
E pensare che, mentre a Parigi e Londra il ricorso al Fmi viene usato come uno spauracchio, appena pochi anni fa Giorgia Meloni l’indicava come una scelta deliberata qualora fosse stata al governo. Nel maggio 2020, la leader di Fdi allora all’opposizione del governo Conte, propose – in alternativa al nascente Recovery fund – l’utilizzo dei Diritti speciali di prelievo (Dsp) del Fmi per non essere “alla mercé dell’asse franco-tedesco”. L’idea era quella di far emettere al Fmi nuovi Dsp per circa 1.250 miliardi di dollari, da distribuire ai paesi membri secondo le quote di partecipazione al Fondo: “L’Italia ne beneficerebbe per circa 40 miliardi, in virtù del suo 3%”. La tesi era che, in questo modo, l’Italia avrebbe potuto spendere senza nessuna delle condizionalità europee imposte con il Pnrr. Come osservammo all’epoca, per l’Italia sarebbe stata una catastrofe. Perché l’uso dei Dsp del Fmi è sempre stato pensato come uno strumento per aiutare i paesi in via di sviluppo, che hanno banche centrali poco credibili, storie di instabilità finanziaria, difficoltà a onorare i debiti in valuta estera e a rifinanziare il proprio debito. Pertanto, per un paese come l’Italia uno strumento del genere sarebbe un suicidio: avrebbe dato ai mercati un segnale terribile, quello di un paese prossimo al default.
Per fortuna, o per intelligenza, dopo aver vinto le elezioni Giorgia Meloni ha archiviato quell’idea balzana e, con il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, ha fatto esattamente l’opposto: da un lato ha attuato il Pnrr come leva per sostenere la crescita mentre, nel frattempo, ha messo in sicurezza i conti pubblici fuori controllo (soprattutto per effetto del Superbonus). Dopo quattro anni con un disavanzo fiscale medio dell’8%, l’Italia è tornata nel 2024 all’avanzo primario e già quest’anno potrebbe scendere sotto il limite europeo del 3%, uscendo dalla procedura d’infrazione con un anno d’anticipo rispetto al piano concordato con Bruxelles. E tutto questo in un contesto di consensi elevati, assenza di conflitto sociale (gli scioperi generali della Cgil sono acqua fresca rispetto alla manifestazione convocata dai sindacati francesi per bloccare il paese il 10 settembre) e stabilità politica: mentre la Francia rischia di andare verso il quinto governo in due anni, il governo Meloni è prossimo a diventare il terzo più duraturo della storia della Repubblica. Se la destra, anziché dimostrare responsabilità fiscale, avesse attuato le sue idee più strambe forse oggi si parlerebbe del possibile arrivo degli uomini del Fmi a Roma, oltre che a Parigi e Londra.
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