Settanta anni di Giangiacomo Feltrinelli Editore
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La casa editrice fondata da Giangiacomo Feltrinelli compie settant’anni (foto Ansa)
magazine
Storia di un editore irregolare. Offuscata dagli ultimi anni da estremista di Giangiacomo, che però seppe sfidare il conformismo di sinistra
Intanto molti e meritati auguri: la casa editrice fondata da Giangiacomo Feltrinelli compie settant’anni. Un editore coraggioso, che andava dove il conformismo culturale avrebbe sconsigliato di inoltrarsi. Terreni pericolosi, anche un po’ sulfurei: e lui ci andò. Un editore che aveva saputo sfidare il primato egemonico dell’Einaudi, anche a costo di mettersi contro una parte della sinistra intellettuale più paludata e piena di remore ideologiche. Lui, editore di sinistra, non voleva avere però una linea a cui conformarsi. E’ stata la sua forza, una continua sfida, che gli ultimi, tempestosi anni della sua vita e della sua militanza estremista purtroppo hanno messo in ombra. E la prima sfida, cronologicamente, fu la decisione di pubblicare nel 1957 “Il dottor Zivago” di Boris Pasternak, l’antisovietico per eccellenza.
Un collaboratore della Feltrinelli, alla ricerca di autori russi da pubblicare, riuscì a farsi dare il manoscritto del romanzo, assicurandosene i diritti mondiali e offrendo una sponda a Pasternak, sicuro che le autorità di Mosca non avrebbero mai permesso che il suo romanzo vedesse la luce. E infatti, appena svelato il segreto, gli aguzzini sovietici lo costrinsero a scrivere lettere minatorie a Feltrinelli per farsi restituire il manoscritto, per poi confiscarglielo. Pasternak, un maestro della dissimulazione, si mostrò all’apparenza docile, scegliendo però come via di fuga lo stratagemma del doppio binario linguistico. Per vie traverse e clandestine fece arrivare a Feltrinelli questo messaggio: “Se dovesse mai ricevere una lettera in una lingua diversa dal francese dovrà assolutamente guardarsi dal seguirne le indicazioni; le uniche lettere valide saranno quelle scritte in francese”. Cominciò così un frenetico esercizio di depistaggio linguistico. In russo i messaggi della menzogna: esigo che mi restituisca il dattiloscritto vergognosamente estorto. In francese: la prego, pubblichi il romanzo il prima possibile, non so quanto riuscirò a resistere alle pressioni. Anche a Feltrinelli arrivarono, prepotenti e insistenti, le pressioni degli uffici del Pci perché l’editore rinunciasse a pubblicare la propaganda “antisovietica”. Ma, come racconta Carlo Feltrinelli nel suo memoir “Senior Service” (Senior Service era la marca delle sigarette predilette dal padre), “un amico si imbatte nell’editore accovacciato sui gradini, dieci minuti prima” di una riunione di partito indetta per costringere Giangiacomo Feltrinelli alla resa: “‘Io tengo botta’, gli sente dire”. E tenne botta, altroché. Il romanzo vide la luce nell’autunno del ‘57, in prima mondiale assoluta, e Pasternak scrisse a Feltrinelli: “Le parole non mi bastano per esprimerle tutta la mia riconoscenza. Il futuro ci ripagherà, lei e me, per le spregevoli umiliazioni che ci sono state inflitte”.
Il romanzo avrà un successo universale, reso ancor più clamoroso dal film di David Lean con Julie Christie, Omar Sharif e l’incantevole “Tema di Lara”. Nel 1958 Pasternak sarà insignito del Nobel per la letteratura, anche se i vertici del comunismo sovietico gli impediranno di ritirarlo a Stoccolma, lasciando vuota la sua sedia d’onore.
Poi, subito dopo, un altro ammutinamento: il caso “Gattopardo”. Francesco Piccolo nel suo “La bella confusione” (Einaudi) racconta in modo sapido le vicissitudini e le sorti alterne del romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa nell’area culturale e politica di sinistra e in particolare quella che ruotava intorno al Partito comunista. Prima era venuto il rifiuto di Elio Vittorini – che peraltro aveva già rotto con il Pci (“Vittorini se n’è ghiuto, e soli ci ha lasciato”, era stato l’elegante commento di Togliatti) – di pubblicare il romanzo con la collana einaudiana dei “Gettoni”. Poi, dopo la pubblicazione del libro da parte di Feltrinelli verso la fine del ‘58 (più o meno negli stessi giorni del Nobel negato a Pasternak), le accuse al romanzo di Tomasi di essere di destra, reazionario, conservatore. “E’ storicamente valida, cioè è poi artisticamente persuasiva la rappresentazione che di quel momento della vita siciliana (e italiana) ci dà il principe di Lampedusa? Noi francamente pensiamo di no”. “Noi” era Mario Alicata, “noi” era il Partito che dettava la linea stroncando il romanzo di un autore, Tomasi di Lampedusa, che era appena scomparso senza poter assistere al successo della sua creatura. Ma di quel perentorio “noi” Giangiacomo Feltrinelli, uomo decisamente di sinistra, si era totalmente disinteressato fidandosi del parere di Giorgio Bassani, al tempo responsabile della narrativa della casa editrice e che aveva ricevuto il manoscritto da Elena Croce suscitando subito molto entusiasmo, come ha ricordato Pietro Citati: “Giorgio lo lesse e nonostante mancassero due capitoli fondamentali, quello del ballo e il finale, si accorse immediatamente d’avere tra le mani un capolavoro”, povero Vittorini che lo aveva cassato. Ma “noi” dovette fare un’umiliante marcia indietro, detta anche, nel legnoso lessico terzinternazionalista, “sincera autocritica”. Primo perché il romanzo era diventato molto popolare. Poi perché aveva vinto il Premio Strega, smentendo i desideri del Partito che puntavano piuttosto sulla vittoria di “Una vita violenta” di Pier Paolo Pasolini, forse il suo romanzo peggiore. E poi perché Togliatti non poteva sopportare che il Pci fosse scavalcato da un intellettuale prestigioso come Louis Aragon, “un marxista intransigente” scrive Francesco Piccolo, che aveva speso parole di smisurato entusiasmo sul libro precedentemente stroncato da “noi”: “Il ‘Gattopardo’ è qualcosa di più che un bellissimo libro, è uno dei romanzi di questo secolo, uno dei grandi romanzi di sempre, e forse il solo romanzo italiano”. Piccolo: sull’opera di Tomasi “Alicata aveva detto che era sbagliata la sua interpretazione. Aragon dice che è giusta”. Togliatti decise che “noi”, cioè il Partito con tutta la sua pesante armatura ideologica, doveva avvicinarsi ad Aragon, anzi che doveva andare molto oltre Aragon. Stabilì che “noi” dovesse includere una prefazione di lodi sperticate all’edizione del romanzo pubblicata in Unione sovietica. E chi fu “noi”? Mario Alicata, che prima aveva stroncato il libro e ora doveva elogiarlo: il Partito esigeva il sacrificio. Poi la pace con il “Gattopardo” arriverà con il capolavoro di Luchino Visconti, ma la versione cinematografica risultò essere decisamente più viscontiana che alicatiana (della prima e della seconda maniera). In ogni caso, stravinse Feltrinelli.
Però Feltrinelli non aveva un carattere molto conciliante, e quando incontrava sulla sua strada altri caratteri poco concilianti, allora il destino voleva che quell’incontro dovesse degenerare in uno scontro. E infatti di scontri epocali e di rotture fragorose, in quello scorcio tra la fine degli anni Cinquanta, il caratteraccio feltrinelliano ne provocò almeno tre.
La prima. Tra le sue fulminanti scoperte (o forse cotte, infatuazioni), anche qui in contrasto con la lenta circospezione dell’auctoritas einaudiana, spicca quella per il Gruppo 63. Fomentata da Valerio Riva ed Enrico Filippini, la passione per la neo-avanguardia letteraria italiana (che poi tanto trasgressiva non fu mai, se persino Sandro Viola, presentandola sull’Espresso in formato gigante la chiamò “avanguardia in vagone letto”) fu alimentata anche a costo di rompere con Bassani. Cioè, insieme a Carlo Cassola una delle due “Liale della letteratura” che i ragazzacci del Gruppo 63 sbeffeggiavano e sbertucciavano senza pietà. Ora, si capisce che Bassani un po’, anzi, un bel po’, se la fosse presa a male. Solo che per vendicarsi, Bassani scelse il bersaglio sbagliato, e mise il veto forse sull’opera letteraria più valida e interessante di tutta l’avanguardia (“in vagone letto”): e cioè “Fratelli d’Italia”, l’opus magnum di Alberto Arbasino. Tempesta in redazione, Bassani, l’uomo che aveva spinto Feltrinelli a pubblicare “Il Gattopardo”, fu accusato di “rifiutare il libro perché conteneva giudizi poco riguardosi verso alcuni suoi amici”, che poi erano indubitabilmente Alberto Moravia ed Elsa Morante. I cassetti del direttore della sezione narrativa, quelli che custodivano altri manoscritti, furono scardinati da ignoti, che però subito vennero considerati “sicari” del Gruppo 63. Il libro di Arbasino venne pubblicato dalla casa editrice, e Bassani lasciò la Feltrinelli.
Ma Feltrinelli era un editore che aveva talmente tanto fiuto per i libri da passar sopra a malumori e attriti con quelli che li proponevano dando maggiore lustro alla casa editrice: in questo caso, il secondo, Luciano Bianciardi. L’Einaudi era decisamente più pudibonda e meno spregiudicata, e male avrebbe tollerato sul versante della letteratura “alta” il lessico scollacciato, un po’ osceno e anche lascivo, di Henry Miller. Invece Feltrinelli, più libero e leggero di mente, più innovativo e persino ardito, meno appesantito dai vincoli di un’editoria più ordinata (e più allineata), nei primi anni Sessanta disse sì a Henry Miller. Glielo aveva suggerito Luciano Bianciardi che, come ha scritto Pino Corrias nel suo “Vita agra di un anarchico” (Baldini&Castoldi), venne letteralmente folgorato e travolto dalla lettura di Henry Miller, “l’americano a Parigi, il distruttore, che racconta di noia, donne, vita spericolata, incazzatura, povertà e destino che sbanca la vita in una sola notte, in una sola rabbia”, perso con una bevuta “tra una pazzia di sesso, una puttana pescata dietro a un Pernod”. Scoprì “Tropico del Cancro” e “Tropico del Capricorno” e li consegnò a Feltrinelli che accolse quella prosa maledetta e scapigliata e anche un po’ oscena. E ne fu folgorato a sua volta, sebbene nel recente passato i rapporti con quel personaggio solitario ed eccentrico, anarchico e sregolato che era Bianciardi fossero stati tutt’altro che idilliaci, tanto che Bianciardi fu addirittura licenziato dalla casa editrice di cui era stato redattore per manifesta inettitudine ai ritmi di un qualunque lavoro regolare, di routine, con orari e tutto. Rapporti che non ressero nemmeno a una scena madre tra i due di cui ha scritto la figlia di Bianciardi, Luciana. Il redattore che di lì a poco sarebbe stato licenziato chiamava Feltrinelli “il giaguaro”. I redattori, racconta lei, conducevano negli anni immediatamente precedenti al boom vita grama, mangiando presso latterie, trattorie da mezza porzione, e così “una sera che erano tutti intorno a un tavolo delle riunioni, arriva il Giaguaro fresco di doccia, appoggia il suo bellissimo cappotto di cammello di fianco a quello di Bianciardi, voltato e rivoltato tre-quattrocento volte, e comincia a parlare di giustizia sociale e lotta di classe. Mio padre non ne può più, alla fine si alza, guarda quel suo cappotto liso, prende il cappotto di Feltrinelli, se lo infila, si pavoneggia un attimo, si volta, poi alza il pugno e dice; viva la lotta di classe”.
Vero o leggendario che sia questo aneddoto, è un fatto che Feltrinelli, per pubblicare Henry Miller, sta a sentire con molta attenzione il suo ex redattore. E sarà un successo, un altro (anzi due, come i “Tropici” milleriani). E sta a sentire anche Valerio Riva, che lo spalleggerà anche nella ricerca di un nuovo filone della scena letteraria mondiale: la letteratura latino-americana.
Anche qui, terzo caso, i rapporti con Riva si faranno sempre più tesi, perché l’editore viene catturato dall’epopea dei barbudos a Cuba, mentre il collaboratore stringe rapporti con i dissidenti anti Castro. Ma il grosso della letteratura latino-americana (a cominciare da Borges) diventa per Feltrinelli fecondo terreno di caccia. Fino all’esplosione di “Cent’anni di solitudine” di Gabriel García Márquez, il terzo pilastro della trilogia di bestseller che rendono editorialmente la Feltrinelli una realtà solida e anche fortunata. E Feltrinelli non si chiuderà nemmeno al grande nemico di García Márquez, Mario Vargas Llosa con “Conversazione nella cattedrale” (per colpa di un tradimento e di un dissenso politico Vargas Llosa rifilò anche un pugno al suo rivale). Se di “egemonia culturale” della sinistra si può parlare, e se l’Einaudi viene considerata la casa editrice in cui quella egemonia trovava il suo culmine e la sua espressione più autorevole, la Feltrinelli oggi settantenne può considerarsi la sua principale avversaria. Altre case editrici blasonate potranno nella storia culturale ed editoriale italiana essersi candidate al ruolo di “anti-Einaudi”. Prima fra tutte l’Adelphi di Luciano Foà e di Roberto Calasso (e con l’ispirazione di un lettore formidabile come Bobi Bazlen) che nacque e ottenne il suo certificato di nascita proprio da un clamoroso rifiuto editoriale da parte einaudiana: l’edizione critica delle opere di Friedrich Nietzsche per la cura della coppia Colli-Montinari, oggi riproposta in nuova e apposita collana. Ma dopo Nietzsche arrivarono presso Adelphi gli autori tacciati di “irrazionalismo”, i dissidenti del comunismo, a cominciare da Milan Kundera, gli inclassificabili, la Mitteleuropa (“decadente”, si scomunicava allora). E anche le opere di Sigmund Freud, autore non proprio amato dall’Einaudi, provocarono una nuova scissione, facendo nascere la casa editrice Boringhieri. Ma i settant’anni della Feltrinelli sono stati una sorpresa continua, un manifesto di libertà culturale “irregolare” che invece l’immagine delle ultime traversie dell’uomo Feltrinelli, fino alla sua tragica morte su un traliccio, hanno decisamente, e ingiustamente, offuscato.
Così si sfida un’“egemonia culturale”, altro che Tolkien e letteratura fantasy.
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