Un’Aida da non crederci
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“Aida” per la regia di Franco Zeffirelli alla Scala nel 2012 (foto Ansa)
magazine
La sfida di rendere scenicamente il melodramma di Verdi, più attuale che mai. Un’epica di amori impossibili
Basta il titolo dell’Aida per evocare immediatamente immagini di grande spettacolarità. E’ il sinonimo della potenza del melodramma: monumentale, eroico, sfarzoso. Aida equivale a quello che oggi potrebbe essere lo show inaugurale di una grande cerimonia olimpica, ad esempio, e non è un caso infatti che questo titolo venne commissionato a Verdi proprio in occasione dei festeggiamenti per l’inaugurazione del Canale di Suez, assieme alla costruzione del Teatro dell’Opera del Cairo che fu poi inaugurato negli stessi anni con un’altra opera sempre di Verdi.
L’opera lirica era lo strumento migliore per celebrare le grandi occasioni perché la sua natura è quella di riuscire a rendere epica una narrazione.
Lo stesso regista del recente film Emilia Pérez, candidato a 13 premi Oscar, ha raccontato che all’inizio aveva pensato di scrivere un libretto d’opera perché voleva un racconto epico. Poi non trovando il musicista adatto ha trasformato la storia in una sceneggiatura, senza rinunciare a un tono melodrammatico che in effetti il film contiene. Questo giustifica anche certi passaggi del film che fanno scricchiolare la credibilità realistica, perché il racconto procede deciso su un tono immaginifico in grado di utilizzare il codice musicale per far veleggiare i personaggi e la vicenda fuori da binari prevedibili e canonici.
Le storie raccontate con la musica hanno questa qualità: non chiedono di essere credute e credibili. Anzi vogliono essere in-credibili, vale a dire straordinarie, meravigliose, in grado di regalare stupore, beffandosi di logica e realismo. Nelle storie raccontate con la musica accade quel tipo di stupore che può dare la sensazione di fermare per un attimo il tempo e immergerti in una dimensione extra temporale. Le arie delle opere liriche fanno così: spesso non succede nulla, l’azione si ferma e si resta in bilico su un istante di commozione che a volte è in grado di dare una piccola vertigine.
In Aida succede proprio questo. E’ un’opera che funziona come una fisarmonica: si allarga e si restringe. Come uno zoom. Una lente in grado di cambiare focale e allargarsi a un grandangolo smisurato capace di abbracciare una folla enorme e festante tra le palme e i baldacchini della città di Tebe, dove ministri, sacerdoti e capitani marciano inneggiando a uno squillante trionfo. Un attimo dopo la lente è in grado di stringere l’obiettivo fino ad arrivare a un dettaglio preciso e intimo, sussurrato di nascosto dai due protagonisti, Radames e Aida, che hanno paura di farsi sentire perché il loro amore non deve essere conosciuto da nessuno, deve essere tenuto a parte, tra parentesi. Il fascino di questo racconto, e la sfida nel renderlo scenicamente in modo adeguato, risiede nel cogliere questo cambio di focale.
Aida è una piccola storia d’amore dentro a una grande storia di guerra. Il classico incontro impossibile dove gli amanti sono di due fazioni opposte e dove i padri (ossessivamente presenti nelle opere di Verdi) arrivano ad imporsi sulle scelte dei figli: i padri in Verdi combinano sempre un sacco di guai. Qui Amonasro ricatta sua figlia, Aida e pretende che lei tradisca l’uomo di cui è innamorata: vuole che la figlia estorca al suo innamorato un’informazione per poter scoprire quale sia il sentiero che l’esercito nemico percorrerà. Aida si rifiuta, non vuole tradire Radames ed ecco che il padre la rinnega: sei diventata la figlia dei faraoni, vattene! Questo è il passaggio che farà precipitare tutta la storia. Aida infatti cede alla volontà del padre, inganna Radames che viene arrestato e condannato a morte. Lei lo raggiungerà nella tomba e insieme moriranno. Aida decide di morire, così come decide di morire Gilda, la figlia di Rigoletto, il quale si è messo in testa di uccidere l’uomo di cui lei è innamorata. E l’elenco è lungo e variegato: padri che pensano di risolvere i problemi sostituendosi ai figli e imponendo la loro volontà, piegandoli alle loro scelte, ricattandoli, creando sensi di colpa che finiscono per distruggere la psicologia di questi giovani uomini e donne. Nella Traviata il giovane Alfredo è disperato perché suo padre ha costretto la donna di cui è innamorato a lasciarlo. Lei, Traviata, asseconda la decisione di quel padre e in questo modo condanna se stessa all’infelicità. Anche in un’altra opera meno conosciuta, dove sembra che le cose possano andare davvero diversamente, arriva sempre un padre che ci ricasca. E’ l’esempio di Stiffelio, dove il protagonista soffre per il dolore di essere stato tradito, ma non reagisce in modo impulsivo e violento, anzi riesce ad accogliere questo dolore e farlo suo, tenerlo sul palmo della mano ed osservarlo fino a riconoscere la complessità di una relazione, arrivando a maturare la capacità di un perdono. Stiffelio vive la sua crisi coniugale con la moglie Lina. Si confrontano con una dialettica assolutamente moderna e parlano di divorzio (siamo nel 1850, mentre il divorzio in Italia viene introdotto nell’ordinamento giuridico 120 anni dopo…).
Insomma, è una coppia che non si colpevolizza a vicenda, che non usa la minaccia per dialogare, sembra che per una volta si possa davvero arrivare al miracolo di un’umanità libera dal giudizio e dalla violenza… E invece no. Nella vicenda di Stiffelio c’è un padre, questa volta è il padre di lei, Stankar, un vecchio colonnello che pensa bene di regolare i conti ammazzando l’amante della figlia. Un assassinio del tutto inutile ai fini della vicenda e a cui nessun personaggio sembra dare alcun valore relegando Stankar in una cornice quasi anacronistica rispetto alla modernità degli altri personaggi.
Analizzando Aida ci si rende conto di come la volontà paterna pieghi la storia ma la sua azione sia sempre illusoria e vana. L’imposizione paterna modifica gli argini di un fiume che poi però dovrà scorrere inesorabilmente al suo mare, perché la vita funziona in questo modo e Aida andrà da Radames come Giulietta andrà da Romeo anche se i genitori non lo vogliono. Anche se non è razionale, se non è logico.
E’ assurdo, dice la ragione, è avventato, dice la prudenza, ma è quel che è, dice l’Amore: versi che sintetizzano questa irrefrenabile e illogica necessità di sentirsi autentici, di sentirsi vivi, di sentire il vento in faccia e il freddo nelle ossa ma di non rinunciare all’emozione dell’esistenza. Di stare come Romeo, al freddo sotto a un balcone aspettando Giulietta che si affacci, se si affaccerà, o di scendere, come Aida, in un sotterraneo freddo e mortale per abbracciare l’uomo che hai scelto e con esso provare a salvarsi dalla mediocrità di una prudenza stagnante che ti riduce ad essere sempre la figlia di qualcuno e mai te stessa.
Se gioventù sapesse e se vecchiaia potesse. Ma la gioventù non sa e la vecchiaia non può.
Nonostante tutto. Le storie d’amore, nella vita e perciò nella letteratura, sfidano tutte le congiunzioni avversative. Ci si ama nonostante, benché, quantunque, malgrado, sebbene… Perché è l’ostacolo a creare il desiderio, a mantenerlo ardente.
Perciò nel melodramma gli ostacoli sono sempre insuperabili. E questo rende le opere liriche così incredibili e potenti nel loro contemplare l’assurdità della vita.
C’è un passaggio in Aida che mi dà un grande senso di tenerezza e fragilità, mentre di solito è visto come un momento schiettamente virile e assertivo. Si tratta della famosa aria “Celeste Aida”, un vero banco di prova per tutti i tenori perché arriva a pochi minuti dall’apertura del sipario e si piazza lì guardandoti con un piglio di sfida come a dire: mo’ vediamo se ce la fai…
E’ un’aria in cui Radames dichiara il suo amore per Aida, ma non c’è nulla di trionfale in questa dichiarazione. Si tratta di un giovane militare che ha un sogno e lo dice: “Se il mio sogno s’avverasse”… Qual è questo sogno? Lo stesso di Romeo. Conquistare l’amore di Giulietta.
Radames infatti per tutta l’aria parla usando verbi al condizionale: se potessi realizzare il mio sogno allora “vorrei ridarti le brezze del patrio suol”, cioè vorrei riportarti a casa o farti sentire a casa. Perché Aida è una straniera, è di un altro paese. Così come Giulietta è una Capuleti e Romeo è un Montecchi. Due case diverse, due paesi diversi. Radames vorrebbe costruire un posto in cui stare insieme.
Esattamente la stessa condizione che vivono altri due innamorati, Tony e Maria, protagonisti del musical di Leonard Bernstein West side story: “somewhere there’s a place for us”. Il sogno di un posto dove sentirsi al sicuro, dove sentirsi protetti. Un posto e un tempo nuovi ma che ancora non si sa come, quando e dove si trovi.
Così Radames sogna l’impossibile, perché cos’altro vuoi sognare se non l’impossibile? Sogna che il suo paese non sia più in conflitto con quello di Aida mentre in realtà tutto attorno c’è solo “guerra”, “morte” e “sterminio”: le tre parole inneggiate dal Coro.
Per tutta l’opera Aida e Radames si parlano pochissimo: solo due volte.
La prima volta in cui si parlano decidono che la cosa migliore da fare è quella di andarsene da lì… somewhere… non sanno dove, ma il desiderio è quello di andare via:
“Sì, fuggiam da queste mura, Al deserto insiem fuggiamo”. E’ meglio un deserto misterioso che quelle mura inospitali. Sarà stupendo dormire su un materasso in un monolocale di periferia, ma poter stare insieme! E a questo punto arriva la solita domanda: come sarebbe andata la storia se… se il padre di Aida non avesse ricattato la figlia, non l’avesse fatta sentire sbagliata e disprezzata (da sé e pure dalla madre che è morta). Il teatro necessita del conflitto. Aida cede al padre, estorce il segreto a Radames che viene arrestato e condannato.
E questo porta i nostri due protagonisti a trovarsi per la seconda e ultima volta in tutta la storia. La prima volta stavano per partire verso un nuovo orizzonte e una nuova luce, mentre ora si ritrovano in un luogo dove è cancellato ogni orizzonte. Sono sottoterra, non c’è più nessuna luce, sono nel buio totale e tornano ad usare la stessa parola con cui Radames ha iniziato l’opera: “addio sogno di gaudio che in dolor svanì”. Quel sogno che aveva Radames è svanito.
Avevamo un sogno, era un sogno gioioso, un sogno di letizia. Avevamo un sogno, ritrovare le “foreste imbalsamate” e immaginare un mondo diverso. E invece questo sogno si è trasformato in dolore. Sembra la sintesi dei loro due unici momenti insieme: nel primo momento c’è l’orizzonte di una terra promessa. Nel secondo il buio della condanna. Radames deve essere dimenticato, oscurato, come accade ai dissidenti politici. Deve essere fatto sparire.
Aida e Radames sono l’emblema dei conflitti tra popoli diversi che non trovano un’armonia, non trovano una pace. Aida e Radames potrebbero raccontare la Palestina e Israele, il martirio di una terra promessa, il sogno di un posto dove trovare un nuovo modo di vivere e un modo di riuscire a perdonare: “Somewhere we’ll find a new way of living, We’ll find a way of forgiving”.
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