Il fenomeno senza regole dei family influencer: figli come contenuti, bimbi usati come sponsor

Un bagnetto, la colazione, il primo giorno di scuola. Su Instagram e TikTok l’infanzia è sempre più di tendenza: un tema perfetto per generare like e community. Ma dietro alla pubblicazione costante di immagini dei figli da parte dei genitori – l’ormai noto sharenting – si nasconde una questione che interroga la società e il diritto: fino a che punto è giusto esporre i bambini online? A questa domanda prova a rispondere Terre des Hommes con la ricerca “Protagonisti consapevoli? La tutela dei minorenni nell’era dei family influencer”, realizzata in collaborazione con l’Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria (IAP) e l’Università Cattolica.
L’infanzia in vetrinaLo studio ha analizzato 1.334 contenuti pubblicati da 20 family influencer italiani, rivelando una realtà ormai sotto gli occhi di tutti: nel 46% dei post compare almeno un bambino, e in un terzo delle pubblicità i figli diventano parte attiva della promozione – scartano prodotti, li mostrano, li raccontano – come piccoli e inconsapevoli promoter.
A colpire è soprattutto l’età: quasi l’80% dei minori ha meno di cinque anni, dunque incapace di comprendere il senso dell’esposizione alla videocamera. Solo nel 7% dei post i volti vengono oscurati o nascosti, percentuale che nei contenuti sponsorizzati scende ad appena il 2%. Ancora più allarmante: in quasi tre post su dieci compaiono momenti intimi – bagnetti, cambi di pannolino, pianti, nanna – o scene di rabbia e tristezza. Solo nello 0,65% dei casi il minore si oppone esplicitamente a essere ripreso, ma nel 63% appare sullo sfondo senza saperlo.

“Quando un genitore trasforma il proprio figlio in parte di un’attività commerciale, assume un doppio ruolo: genitore e datore di lavoro”, spiega Federica Giannotta, responsabile Advocacy di Terre des Hommes. “Questo può compromettere la fiducia su cui si fonda l’infanzia. La messa in scena di momenti privati mina il senso di protezione e la capacità di distinguere realtà e finzione”. Eppure, contrariamente a quanto si pensa, mostrare i figli non aumenta la popolarità dei genitori sulle piattaforme: l’engagement medio resta stabile perché il pubblico segue l’adulto, non i bambini.
Regole e responsabilitàDa qui la richiesta di regolamentare il lavoro minorile nei social media. Terre des Hommes sostiene il disegno di legge in esame al Senato, che prevede di equiparare la partecipazione dei minori ai contenuti commerciali alle altre forme di lavoro minorile, con approvazione preventiva dei post da parte della Direzione provinciale del lavoro e deposito dei guadagni su conti intestati ai bambini.

L’associazione propone inoltre un registro per gli influencer, dove dichiarare i contenuti sponsorizzati in cui compaiono figli o figlie, da valutare insieme all’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria. Ma la tutela non è solo una questione di legge. “I social offrono opportunità ma creano anche vulnerabilità – avverte Elisabetta Locatelli, ricercatrice alla Cattolica –. La sovraesposizione dei minori e la mancanza di confini tra vita privata e professionale rendono urgente regolamentare e formare i genitori”.
Verso una nuova consapevolezzaNon tutti però scelgono la via dell’esposizione totale. “Mi chiedo se la nostra voglia di condividere valga il rischio di contribuire, anche inconsapevolmente, a un mondo senza confini. Proteggere significa anche scegliere di non esporre”, dice l’attivista iraniana Pegah Moshir Pour. Sulla stessa linea Aurora Ramazzotti: “Scelgo di tutelare mio figlio, pur rendendolo marginalmente parte della mia narrazione. Voglio dimostrare che esiste una via di mezzo”. Una posizione condivisa anche dai creator Papà per scelta, Christian De Florio e Carlo Tumino: “Vogliamo essere noi i decisori finali sulla presenza dei bambini nei contenuti sponsorizzati. Abbiamo detto no a vari script: per noi il bambino non deve mai recitare”.
Una via di mezzo, appunto. Dove la vita familiare può essere raccontata, ma senza trasformare l’infanzia in uno spettacolo. Perché crescere – anche nell’era dei social – deve restare un diritto, non un contenuto.
Luce






