Intervista ad Antonio Armellini: “A Gaza pulizia etnica, urgente riconoscere la Palestina”

Parla l'ambasciatore
«Si tratta di un atto politicamente dovuto per la comunità internazionale. Attribuirebbe piena legittimità a una entità e a un popolo cui è negata e che invece è fondamentale per qualsiasi soluzione che sia diversa dalla distruzione reciproca»

Il suo cursus honorum parla per lui. Portavoce di Altiero Spinelli alla Commissione di Bruxelles, collaboratore di Aldo Moro alla Farnesina e a Palazzo Chigi, l’ambasciatore Antonio Armellini è stato a Londra, Varsavia, Bruxelles, Addis Abeba, Vienna, Helsinki. Ambasciatore itinerante alla CSCE (Conferenza per la sicurezza e la cooperazione europea), ambasciatore in Algeria, in India, all’Ocse a Parigi, capo della Missione italiana in Iraq (2003-2004), consigliere per le relazioni internazionali della città di Venezia.
Ambasciatore Armellini, lei è tra gli oltre settanta ambasciatori firmatari dell’appello alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni affinché l’Italia riconosca lo Stato di Palestina. Perché oggi? Le rispondo con quella che può sembrare una tautologia: perché era gran tempo. “Due popoli due stati” non è per oggi e la Palestina è destinata a rimanere per ora – e chissà per quanto – una costruzione intellettual-geografica intrisa di storia e di risentimento, che passa dalla Bibbia al Deicidio, da Herzl a Balfour e al King David, sino alle chiavi della casa perduta al collo dei profughi della Naqba. E allora? Il riconoscimento dello Stato di Palestina è un atto politicamente dovuto per la comunità internazionale – e doveroso per l’Italia – non perché sia eticamente o ideologicamente necessario come ciancia qualcuno, ma in primo luogo per rendere chiaro il rifiuto di condonare ulteriormente una volontà imperiale di espansione aggressiva verso territori che all’aggressore non appartengono, mentre appartengono alla popolazione che si vuole espungere. Questa deve rispondere dei suoi crimini, senza dubbio, ma se genocidio non è il termine corretto, pulizia etnica lo è, per descrivere ciò che accade da parte del governo di Netanyahu. C’è un’altra ragione per farlo, più decisiva: il riconoscimento permette di spostare il discorso sul piano della politica internazionale, attribuendo piena legittimità a una entità e a un popolo cui è negata e che invece è fondamentale per qualsiasi soluzione (dai due stati, alla colonizzazione della “piccola grande Israele”, allo spettro di Masada che aleggia sullo sfondo) che sia diversa dalla distruzione reciproca, o dall’alternarsi continuo di guerra e terrorismo, che in pratica è la stessa cosa. Non riesco a convincermi che la priorità debba essere di insistere per un salto di qualità delle azioni umanitarie, in attesa di un Godot che dovremmo aspettare e che invece rinunciamo a cercare. Hamas sono criminali, non c’è dubbio, ma Israele – come tutti noi – è una democrazia vincolata alle regole del diritto internazionale, che vanno rispettate nei confronti di tutti, se non vogliamo pensare che siano tornati i tempi del taglione. Anche il King David fu terrorismo, ma la comunità internazionale seppe gestirlo politicamente. È vero che l’opposizione cresce all’interno di Israele: lo sciopero generale ne mostra la vastità così come la disperazione dei suoi promotori, e aumenta il numero dei disertori nell’IDF, ma resta il fatto che quattro israeliani su cinque sono d’accordo per obliterare Gaza e i suoi abitanti. Era il 1971 ed ebbi l’opportunità di incontrare Moshe Dayan, fresco vincitore della guerra ed eroe nazionale conclamato, nel kibbutz del governo vicino a Tel Aviv: non è la guerra (che già annunciava), mi disse, la via della sicurezza per Israele, che dovrà essere trovata in una rete stabile di collaborazione con tutti i paesi vicini. Ci penseranno la capacità di attrazione della democrazia civile e la superiorità tecnologica di Israele a farne un’area di co-prosperità condivisa di cui sarebbe il dominus, ma non l’oppressore. Era un discorso profetico che non andò in porto, ma perché ricordarlo proprio ora? Per cercare di spiegare quanto Israele sia diventato diverso: la stagione dei sionisti illuminati alla Ben Gurion e alla Abba Eban non c’è più e il paese oggi è di tutt’altra pasta, anche a prescindere dai fanatici biblisti. Credere in Haaretz fa bene alla coscienza ma, ahimé, non è la realtà.
Da più parti si critica l’inerzia dell’Europa e in particolare della presidente della Commissione europea su Gaza. Attaccare von der Leyen è un po’ come sparare alla Croce Rossa: lei non esprime una posizione politica unitaria, al pari degli altri protagonisti, ma rappresenta la mediazione difficile fra posizioni nazionali spesso non compatibili. Quali che siano le sue capacità personali (magari non è così male come dice Salvini), la sua debolezza è quella di una entità internazionale – l’Europa – che aspira ad un ruolo che non è capace di assumere. Invece dovrebbe farlo perché i suoi componenti restino credibili. Come, non lo abbiamo ancora scoperto.
Sostiene il ministro degli Esteri Antonio Tajani che non si può riconoscere uno Stato che non esiste. Il ministro Tajani esprime le posizioni del governo, che rispondono a considerazioni politiche e di sicurezza in un contesto più vasto della regione di cui stiamo parlando. Meritano il massimo rispetto ed è altrettanto legittimo per i cittadini dissentire. Vorrei qui fare una piccola chiosa, legata alla lettera di non più trenta, ma oltre settanta ambasciatori, che lei ha citato. Il ministro Tajani ha dichiarato di avere il massimo rispetto per i suoi firmatari, cosa di cui gli sono grato, e ha aggiunto di non ricordare che, quando in servizio, gli stessi avessero avanzato richieste analoghe. Mi chiedo se qualcuno dei suoi collaboratori gli abbia mai illustrato la natura del giuramento che essi sono tenuti a prestare. Il diplomatico collabora all’elaborazione delle linee di politica estera, la cui responsabilità è prerogativa esclusiva del potere politico. Può, e in alcuni casi deve, fare le sue valutazioni anche in forma dialettica, ma sempre all’interno di un percorso che rimane vincolato alla totale riservatezza. Il diplomatico consiglia come coscienza ed esegue come dovere, ma ha una sua autonomia di pensiero che, quando cessino le sue responsabilità, può esprimere al pari di qualsiasi cittadino. È uno stato finto la Palestina? Si, ma necessario e certamente non il solo, come illustrano altri esempi non troppo dissimili di promozione di stati “imperfetti” come acceleratori di processi politici ed istituzionali fondamentali per l’equilibrio internazionale a lungo termine, a partire dall’esempio dal Kosovo. Caratteri fondanti di uno stato, come è stato detto, sono un territorio e un popolo, che nel caso della Palestina esistono entrambi, ancorché conculcati in maniera illegale. Riconoscerla vuol dire permetterle di agire come soggetto di diritto internazionale a tutto tondo, su un piano di parità con Israele e il resto della comunità internazionale, in cui sinora le è stato al massimo riservato uno strapuntino. Non si tratta tanto di prendere atto che sono ormai due terzi e più i paesi membri dell’ONU che riconoscono la Palestina, quanto di attribuire pieno diritto di rappresentanza ad entrambi i popoli nella ricerca di soluzioni ad una crisi che li riguarda entrambi a pieno titolo. Vi è certamente un problema di legittimazione democratica che deve essere risolto e qui spetta alla comunità internazionale – in primis all’ONU – di esercitare il proprio ruolo. Va da sé che l’ANP non può pretendere alcun diritto, avendo da tempo affondato la sua credibilità in una palude di clientelismi e corruzione. Hamas, la cui nascita Netanyahu e Israele avevano incoraggiato at their peril, non è immaginabile: non è con i criminali che si ricostruisce la democrazia. Ma non sono neanche i coloni interlocutori accettabili sul versante di Israele! La pressione della comunità internazionale deve servire a far maturare altri attori, a livello palestinese innanzitutto (dove ancora aleggia l’ombra di persone come Barghouti, Israele dovrebbe ricordare che ex terroristi possono diventare eccellenti uomini di stato…), ma non solo.
Critica dal versante opposto: il riconoscimento dello Stato di Palestina non fermerebbe la mattanza d’Israele e l’occupazione di Gaza ordinata da Netanyahu. Il riconoscimento della Palestina non ferma la mattanza? Forse no – e le ragioni di essa vanno spesso aldilà non solo della politica, ma anche della ragione – ma potrebbe se non altro servire a spostare il problema sul piano del rapporto fra stati sovrani, regolati dal diritto internazionale e da quello di guerra, piuttosto che della lotta contro formazioni terroristiche prive di legittimazione qualsivoglia, dando alla comunità internazionale un’arma in più – stavolta di peso – per contrastare la deriva militare in atto. Israele non se ne curerebbe? Può darsi, ma se così fosse la violazione del diritto internazionale sarebbe giuridicamente e non solo politicamente evidente e dovrebbe essere pesantemente sanzionata. Analogo discorso, ovviamente, vale per lo stato palestinese e Hamas. Che dire infine del progetto di spostare – “volontariamente” o meno – altrove qualcuno che legittimamente vuole restare dove è nato e che nessuno, fra l’altro, è pronto ad accogliere? È vero che Herzl aveva pensato all’Uganda e forse anche all’Argentina per la nuova terra degli ebrei, togliendo di mezzo le motivazioni religiose che sono invece alla base delle isterie bibliste dei coloni e dei loro alleati, più o meno succubi. Cosa ne pensassero ugandesi o argentini all’epoca nessuno se lo chiese, ma anche ciò detto, fra le idee di Herzl e i piani di oggi c’è una differenza di fondo: in quel caso si trattava di territori scelti proprio perché desertici o quasi. In questo, si tratta di un territorio i cui abitanti che si vuole espungere sono lì legittimamente da millenni e hanno pieno diritto di restarvi. Insieme ad altri certo ma, appunto, non in cambio di essi.
Ambasciatore Armellini, molto si discute e polemizza sull’uso del termine genocidio applicato a ciò che sta accadendo a Gaza. Aldilà del termine, perché chiunque osi criticare ciò che Israele sta facendo nella Striscia viene subito tacciato, dai sostenitori di Tel Aviv, di essere un antisemita filo-Hamas? Di genocidio ho già detto: terminologicamente mi sembra una definizione non corretta, perché il genocidio si propone l’eliminazione fisica di una intera collettività o popolazione – come fu il caso per la Shoah – mentre il governo di Netanyahu vuole svuotare totalmente un territorio dei suoi abitanti, non uccidendoli tutti sistematicamente, ma esiliandoli forzosamente (a parte la farsa crudele del “trasferimento volontario”). Le dispute terminologiche mi sembrano tuttavia sterili. Il punto fondamentale è che qui si sta cercando di realizzare una pulizia etnica senza precedenti e senza alcuna giustificazione, tanto sul piano giuridico che umanitario, perché non cambia nella sostanza se essa non ha come obiettivo dichiarato lo sterminio totale, bensì la deportazione di un popolo di una delle tre grandi religioni del Libro, distruggendone storia, memoria e identità. Continuo a pensare che quanti sostengono che accusare Israele rappresenta una inaccettabile manifestazione di antisemitismo abbiano non solo torto, ma vadano contro il loro stesso interesse. Israele è uno stato sovrano e come tale attua una politica che ritiene conforme agli interessi dei suoi cittadini, che sono in grande maggioranza ebrei, ma anche cristiani, arabi e (presumo) non credenti. Che questa politica risponda o meno alle esigenze della popolazione, e rispetti i principi della democrazia rappresentativa, è problema che riguarda gli stessi suoi cittadini attraverso il voto, così come spetta alla comunità internazionale stabilire se i comportamenti dello stato di Israele sono conformi al diritto. Molti cittadini israeliani contestano fortemente la legittimità del governo Netanyahu e la sua politica nei confronti del territorio della Palestina e dei suoi abitanti. Lo stesso fa la grande maggioranza della comunità internazionale, in nome del rispetto del diritto internazionale e di fondamentali principi di civiltà. Affermare che chiunque sia contrario alla politica – si badi bene, non allo stato – di Israele in Palestina sia automaticamente antisemita, è un clamoroso autogol che trasforma avversari legittimi di una politica in nemici immaginari nel nome di una religione, spostando il discorso su un piano che, prima di ogni altra cosa, danneggia chi lo propone. Perché chi si oppone alla politica di Israele non è per forza di cose antisemita, mentre considerarlo automaticamente tale finisce per dare all’antisemitismo un peso e una capacità di attrazione, che invece non gli appartengono. Un vero autogol, ripeto. La storia dell’antisemitismo è antica, la persecuzione degli ebrei in Europa è stata la causa di atrocità e drammi non sempre risolti, ma la Shoah nel suo orrore ha permesso a tutti di fare i conti con un passato dai moltissimi colpevoli e ribadire solennemente che non avrebbe mai potuto ripetersi. Abbiamo impiegato molti secoli per arrivare a un rapporto reciprocamente accettabile fra Dio e Cesare, ponendolo alla base delle nostre moderne democrazie, e dobbiamo stare molto attenti ad evitare che il demone del fondamentalismo – di tutti i fondamentalismi – possa prendere di nuovo piede. Israele ha fra le sue finalità la promozione degli interessi degli ebrei nel mondo, è del tutto legittimo che lo faccia in quanto stato di diritto, membro della comunità delle nazioni, così come è legittimo criticare le posizioni che esso può tenere, in quanto attentati non all’ebraismo, ma allo stato di diritto. Difendo il mio pieno diritto ad oppormi a quanto Netanyahu fa in Palestina e considero offensivo che qualcuno possa accusarmi per questo di essere antisemita, una accusa di cui non capisco il senso e da cui sono culturalmente ed eticamente assai lontano. Quanto sta avvenendo non è espressione della lotta fra due fedi, fra due tribù che si richiamano al proprio Dio, bensì della politica aggressiva che uno stato, laico nella sua articolazione costituzionale, sta effettuando con obiettivi di espansione territoriale che non hanno alcuna giustificazione storica e giuridica. Opporsi alla pulizia etnica e alle mire espansionistiche è doveroso in nome dello stato di diritto, l’antisemitismo non c’entra proprio per niente.
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