SCUOLA/ Lyotard, la narrazione e il cantiere: come sconfiggere la tentazione del cellulare

L'invadenza dei cellulari nella vita degli studenti è aumentata, la fruizione è cambiata mail problema rimane. La scuola ha delle contromosse?
Quando venne coniato il termine nomophobia si era nel 2008 nell’ambito di un’indagine dell’ente di ricerca britannico YouGov per conto del settore telefonia di Post Office Ltd; chi lo fece mescolò un frammento di inglese (no-mo[bile] “senza cellulare”) con un pezzo di greco (phobia “paura”), con buona pace dei cultori dell’etimo che interpretano senz’altro nomos come “legge”, forse non sapendo che il lemma nomofobia inteso come “paura della legge” non è registrato sui dizionari italiani.
Sono un bel po’ di anni dunque che se ne parla, ma per valutare un problema o capire l’andamento di un male serve tempo e servono casi umani utili per stilare una statistica. Lentamente ci stiamo arrivando e il problema sta emergendo soprattutto tra le ultime generazioni, come dibattuto durante il convegno annuale della rete delle scuole dialogiche tenutosi a Siracusa lo scorso 18 maggio 2025.
E proprio a quel convegno sono stato invitato per fornire il mio punto di vista sulla questione, che è quello di un insegnante della scuola secondaria di primo grado.
Alcuni numeriPartiamo da alcuni dati (fonte wearesocial.com): alla fine di giugno 2024 il 70% della popolazione mondiale si qualifica come utente mobile e di questi il 57% utilizza uno smartphone per connettersi alla rete; nel 2022 il 58,4% della popolazione utilizzava piattaforme social (il dato è incrementabile almeno del 10% all’anno) e la media giornaliera di tempo impiegato online è di circa 7 ore.
È indubbiamente allarmante pensare che gran parte di quelle 7 ore possono essere spese da un ragazzino a scorrere video o chattare sui social invece di vivere esperienze reali; 7 ore, escludendo il sonno, sono quasi un terzo della giornata, lasso di tempo probabilmente da incrementare in assenza di lezioni scolastiche mattutine.
Proprio questo allarmismo sta spingendo alcuni Stati, in modo più o meno autoritario, a limitare l’accesso a internet ai minori. Del 16 giugno 2025 ad esempio la circolare ministeriale italiana che vieta agli studenti del secondo ciclo di istruzione l’utilizzo del telefono cellulare in orario scolastico: il ministro Valditara esplicita che “tale intervento appare ormai improcrastinabile alla luce degli effetti negativi, ampiamente dimostrati dalla ricerca scientifica, che un uso eccessivo o non corretto dello smartphone può produrre sulla salute e il benessere degli adolescenti e sulle loro prestazioni scolastiche”.
Il tramonto dei vecchi socialQual è il vero rapporto di un quindicenne con il mondo virtuale però non è così facile da definirsi: l’epoca dei social intesi alla vecchia maniera è finita da un pezzo, anche se i cinquantenni come me continuano a utilizzarli sempre allo stesso modo.
Ho visto nascere Facebook, Instagram e via via tutto il resto e per curiosità mi sono iscritto negli anni alle varie piattaforme, sia per andare a curiosare nei profili di amici, conoscenti o personaggi pubblici, sia per approfittare della loro indubbia portata mediatica per pubblicizzare le mie attività o le mie pubblicazioni.
Poi un giorno, come capita a tutti i padri assai distratti, mi sono accorto che mio figlio era cresciuto e che anche lui si era fatto prendere dalla smania del cellulare e del mondo virtuale: da padre, questa volta un po’ meno distratto, ho monitorato i suoi profili (quelli che penso siano pubblici almeno) e ho scoperto con stupore non esserci nulla di pubblicato.

E non c’è nulla nemmeno su quelli dei suoi coetanei: incuriosito gli ho chiesto il significato e la risposta è stata semplice. Non interessano le foto ma solo le storie; al massimo qualche immagine la si può postare su un secondo profilo privato che raramente viene visitato e ha normalmente un numero esiguo di followers.
L’accesso ai social è diventato un semplice rincorrere le esperienze quotidiane di qualcun altro o scambiarsi informazioni inutili o volgari su Snapchat; altra cosa è invece il mondo dei video su YouTube: a seconda dei gusti saranno preferiti da una parte canali settoriali come quelli dedicati alle discese in bicicletta, ai gamers che giocano al posto di chi li guarda o ai recensori delle ultime novità tecnologiche; viceversa gli amanti degli shorts si butteranno su video che forniscono in pochi secondi informazioni nel complesso inutili ma talvolta ben raccontate.
Pirandello e LyotardDa questo sommario e superficiale resoconto si può estrapolare il fatto che nel calderone dei social ci sguazzano più o meno tutti, anche se con modalità e finalità assai diverse. In ogni caso in qualunque video, storia o reel si racconta qualche cosa o si narrano vicende o esperienze che saranno visualizzate una, nessuna o centomila volte con una massificazione totale di un prodotto effimero che si perde in un sistema che a sua volta non è destinato a durare, nemmeno come memoria storica.
Pirandello a parte, è proprio il rapporto che si crea tra un narratore e centomila fruitori che mette in crisi il nuovo sistema sociale: ci si accontenta di guardare e, nella migliore delle ipotesi, ascoltare in modo passivo evitando così la fatica del dialogo (impossibile del resto con quei numeri).
Questo è ciò che spaventa anche e soprattutto il sistema educativo in genere, che non solo si deve interrogare su ciò che sta succedendo, ma deve anche valutarne gli effetti (non necessariamente drammatici, sia chiaro) e trovare soluzioni a una problematica in parte prevista quasi cinquant’anni fa.
C’è un testo del 1979 che ritengo allo stesso tempo profetico e fondamentale per la filosofia contemporanea che è La condizione postmoderna di Jean-François Lyotard: con grande lungimiranza il filosofo si interrogava su questioni oggi attualissime, come l’accesso a banche dati infinite da parte di grandi società, a una nuova fruizione del sapere, prodotto solo per essere venduto o allo slittamento del potere dalla classe politica a quella dirigenziale e tecnocratica.
Ai fini del nostro discorso però ciò che interessa è il ragionamento di Lyotard sulla crisi delle narrazioni. La scienza fa uso di linguaggio denotativo per le sue comunicazioni, ma gli stessi scienziati tendono durante le loro esposizioni a uscire da quel binario e a narrarla in modo connotativo e attraverso l’uso di giochi linguistici.
Il potere della narrazioneQuesto fatto la dice lunga sul potere della narrazione e su ciò che implica un cambiamento di paradigma narrativo: il sapere scientifico tout court non si basa sull’oralità e non considera legittimo il sapere narrativo, retaggio di un passato arretrato.
Le grandi narrazioni, in particolar modo nella nostra attuale società tecnocratica, sono in crisi e lo stesso concetto di narrare, anche nella realtà quotidiana, sta perdendo validità: la madre non racconta più favole al bambino ma sostituisce il suo ruolo con un video perché a sua volta è occupata a scorrere storie sui social.
Il bambino che si placa alla consegna di un tablet è sufficiente a interrompere un rapporto di comunicazione anche non verbale come quello che si instaura con lo sguardo o con l’espressione del volto, anch’esso parte integrante di una narrazione.
I racconti hanno perso potere e con loro se n’è andata quell’aura di cui parlava Walter Benjamin ne L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica: la riproduzione infinita di una storia sottrae ciò che è riprodotto non solo all’ambito tradizionale della narrazione, ma affida a un mezzo meccanico la poesia del racconto.

Non sono in grado di valutare se questo costituisca un danno a livello medico, il mio non è un discorso di prevenzione: è un’analisi soggettiva e personale di un fenomeno che reputo problematico a livello comunicativo ma che, come tutti i fenomeni sociali, avrà una sua evoluzione, un picco e una decrescita che farà tornare le future generazioni sui loro passi, facendo ridiventare l’osservazione, il contatto con le cose e la comunicazione verbale un’esigenza o, perché no, una nuova religione.
Il problema è ora e ora va affrontato da genitori ed educatori. Una madre o un insegnante devono sapere raccontare e lo devono saper fare oggi molto meglio di un tempo: le conoscenze e le informazioni sono ormai accessibili a tutti in quantità illimitata. Ciò che contraddistingue un buon docente non è più il suo nozionismo, ma la capacità di narrare fatti e di insegnare ai ragazzi come si formulano le domande; le risposte, generate manco a dirlo dall’intelligenza artificiale, saranno di certo più mirate e precise rispetto a quelle con a monte domande non pertinenti.
OmeroDurante il convegno di Siracusa ho proposto due semplici ricette didattiche per tentare di allontanare i giovani dalla morsa della dipendenza da devices.
La prima consiste nel riappropriarsi delle narrazioni e per farlo bisogna impegnarsi molto nella nostra civiltà: il piacere provocato da un racconto è uguale oggi come al tempo di Omero, però le ultime generazioni ne sono state via via private. E non sto parlando dei grandi miti ma di qualunque fatto, anche banale, che in bocca a un buon affabulatore può diventare un’impresa epica e generare stupore.
In oltre venti anni di insegnamento ho notato in tutti gli ordini di scuola e a qualunque età un interesse crescente per le mie lezioni quando da un evento storico mi ricollego a un caso personale.
Durante una spiegazione – non importa l’argomento trattato – l’inserimento di un aneddoto o di un episodio occorso a un familiare o a un amico sembra accendere una speciale lampadina negli occhi di molti ragazzi. Basta un accenno alla storia di mio nonno, cannoniere sul cacciatorpediniere “Pantera” nel Mar Rosso durante la Seconda guerra mondiale, e le imprese di Rommel, Eisenhower e Montgomery passano subito in seconda fila.
La narrazione interessa la lingua e la lingua comunica contenuti spirituali, sempre; con il linguaggio adottato si rivelano cose attraverso suoni, colori, espressioni, nomi, tutti elementi che agiscono sullo spirito e sull’immaginazione.
Dunque una narrazione porta in sé una rivelazione con ciò che esprime o che potrebbe esprimere. Posso tradurre una lingua ma non un linguaggio; posso passare dal francese all’inglese ma non posso tradurre un quadro in musica, perché un suono non è un colore anche se me lo può evocare. Lo sforzo di passare da un’immagine a una storia è una cosa fondamentale ad esempio per i bambini: la “lettura” di albi illustrati da parte di una maestra tiene incollati i bambini a una storia che è improvvisata ma che suscita stupore, meraviglia e fantasia.
Il fascino di un evento realeLa seconda ricetta è decisamente più banale ma non per questo meno efficace. Partiamo da un esempio: dalle finestre della mia aula scolastica il panorama è cambiato radicalmente una mattinata di qualche mese fa con l’abbattimento di una vecchia palestra che per più di mezzo secolo ha ospitato le lezioni di educazione motoria dell’istituto ed è stata frequentata da un po’ tutte le generazioni del paese.
Da quando non c’è più è stato possibile vedere oltre, avere un orizzonte molto più distante che nell’arco di un anno verrà di nuovo cancellato dalla ricostruzione del nuovo edificio.
La mattina in cui le ruspe sono entrate nel cantiere ho interrotto la lezione e ho fatto andare i ragazzi alle finestre (non me ne voglia il ministro dell’Istruzione per l’interruzione di pubblico servizio): l’evento andava osservato in diretta e, come anziani pensionati, abbiamo trascorso almeno venti minuti a contemplare il crollo. Quello fu un momento di stupore reale per i ragazzi, dovuto a un fatto eccezionale, particolare e comunque interessante.
Un mese dopo circa ho riproposto l’osservazione: nulla ormai di così eclatante all’apparenza in quel cantiere operoso ma lo stupore, opportunamente veicolato, è emerso anche in quell’occasione.
Un cantiere in un reel non ha speranza di ottenere visualizzazioni a meno che documenti un crollo o un incidente di una certa entità. La vita reale però sa ancora offrire ai ragazzi una certa meraviglia che uno schermo non riesce a suscitare e soprattutto domande o suggestioni generate dall’osservazione attenta di dettagli e situazioni (il funzionamento di una gru, il cemento necessario per una soletta, la sicurezza sul lavoro, la maestria degli architetti, l’oscillazione di un carico).
Sapersi interrogare sulle cose è fondamentale: per rintracciare su internet qual è il nome di “quel coso attaccato al filo che pende dalla gru per portare cemento” (benna, nda) ci sono voluti alcuni minuti con risultati intermedi assai originali.
Preoccupazione sì, ma non allarmismo: la nomofobia è figlia dei nostri tempi, una dipendenza pericolosa sconosciuta fino a ieri, ma di certo affrontabile e superabile e spero che i primi a capirlo siano proprio i ragazzi.
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