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Alzheimer, per curarlo serve un mix di nuove e vecchie terapie

Alzheimer, per curarlo serve un mix di nuove e vecchie terapie

L’avvento di nuovi test diagnostici e di nuove terapie a base di anticorpi monoclonali sembra aprire nuovi scenari per quanto riguarda il trattamento dell’Alzheimer. Allo stesso tempo, avverte un gruppo di esperti attraverso una serie di tre articoli scientifici pubblicati su The Lancet, si tratta di strumenti “giovani”, il cui grande potenziale potrà essere sfruttato appieno solo se, in parallelo, continueranno ad essere adeguatamente utilizzati tutti i mezzi diagnostici e terapeutici già disponibili e consolidati nel corso di anni e anni di ricerca.

Farmaci pro e contro

In particolare, due anticorpi monoclonali, lecanemab e donanemab, hanno destato da un lato grande entusiasmo per il fatto di essere i primi in grado di modificare il decorso della malattia; dall’altro, sono al centro del dibattito per il loro prezzo elevato, per gli effetti collaterali che possono causare e per il fatto che al momento solo una piccola percentuale di pazienti rientra nelle indicazioni per il trattamento.

“Con questa serie di articoli abbiamo cercato di normalizzare questo dibattito, sottolineando che questi temi non sono specifici dell’Alzheimer. Questi due anticorpi monoclonali sono stati sviluppati secondo gli standard di tutti gli altri anticorpi monoclonali per le altre malattie croniche, non c’è niente di strano. Quello che rende in qualche modo la discussione diversa sono le dimensioni sociali della malattia”, spiega a Salute Giovanni Frisoni, che ha coordinato la serie uscita su The Lancet ed è direttore del Centro della memoria dell’ospedale universitario di Ginevra (Svizzera) e docente di neuroscienze cliniche presso l’università della stessa città.

Quali sono le nuove possibilità terapeutiche

L’Alzheimer, infatti, è la forma più comune di demenza e si stima che contribuisca al 60-70% del numero totale di casi, che supera i 50 milioni in tutto il mondo. Non stupisce, quindi, l’entusiasmo generato dall’avvento di farmaci che gli esperti definiscono disease modifying, cioè modificatori della traiettoria di malattia, proprio perché riescono a rallentarla e magari a stabilizzare per qualche tempo la situazione, pur non arrestando del tutto la progressione. Parliamo appunto di lecanemab e donanemab, due anticorpi monoclonali pensati per ridurre l’accumulo di proteina beta-amiloide, che sembra essere una delle cause scatenanti della malattia di Alzheimer. Il primo è stato approvato nel 2023 dalla statunitense Food and Drug Administration (Fda) e successivamente anche dall’Agenzia Europea dei Medicinali (Ema). Donanemab, invece, è stato approvato dalla Fda nel 2024 e l’Ema lo sta rivalutando a seguito di un iniziale parere negativo emesso alla fine di marzo 2025.

La valutazione degli effetti collaterali

Come anticipato, oltre agli effetti positivi sul decorso della malattia, una certa percentuale di partecipanti agli studi clinici ha manifestato effetti collaterali anche gravi, come edema o emorragia cerebrale. Gli autori della nuova serie hanno quindi provato a comparare costi (sia in senso lato che in senso stretto) e benefici dei due nuovi anticorpi monoclonali con quelli di altri farmaci biologici sviluppati per il trattamento di alcuni tipi di cancro, della sclerosi multipla o dell’artrite reumatoide. Anche se il paragone deve essere preso con le dovute cautele, visto che si tratta di patologie e pazienti chiaramente diversi, quello che emerge è per esempio che lecanemab e donanemab portano a una riduzione della progressione della disabilità dovuta all’Alzheimer paragonabile a quella emersa in altri studi incentrati su anticorpi monoclonali per il trattamento della sclerosi multipla e dell’artrite reumatoide.

Un processo che deve fare il suo corso

Il punto, sostiene Frisoni, è che non dovremmo guardare a questi due nuovi strumenti come agli unici su cui fare affidamento da qui in avanti: “Non guardiamo a queste innovazioni pensando che, da sole, possano essere risolutive. Al contrario, consolidiamo le conoscenze già disponibili e occupiamoci dei malati utilizzando al meglio gli strumenti che abbiamo già oggi. Dopodiché, sfruttiamo questo terreno fertile, fatto di conoscenze ed esperienza accumulate nel tempo, per implementare le novità”.

Anche perché i due nuovi anticorpi monoclonali dovranno continuare ad essere studiati per capire sempre meglio se siano adatti per tutti i malati di Alzheimer oppure solo per alcuni, o in quali condizioni portano più frequentemente allo sviluppo di effetti collaterali.

“È una strada che è iniziata e che credo andrà inesorabilmente avanti, ma bisogna accettare che all’inizio saranno pochi i pazienti trattati - prosegue Frisoni - Ed è giusto che sia così, sarebbe una follia il contrario”. Solo col tempo, spiega, potremo conoscerli e “maneggiarli” sempre meglio, e anche ottenerne altri di seconda generazione che magari saranno meglio tollerati. Insomma, siamo ancora all’inizio di un processo che sembra certamente promettente, ma che deve fare il suo corso.

Sfruttare quello che abbiamo già

Nel frattempo, dobbiamo ricordarci di quello che già abbiamo a disposizione: “Mi riferisco all’utilizzo adeguato della raccolta anamnestica, dei test neuropsicologici, della risonanza magnetica, della PET, dei farmaci per i disturbi comportamentali. Tutti strumenti che utilizziamo ormai da anni, e che oggi conosciamo decisamente meglio di 30 anni fa - aggiunge il docente - Tuttavia, dobbiamo far sì che siano sfruttati appieno non solo nelle cliniche più specializzate e di punta, ma ovunque”.

La psicoeducazione dei familiari

Un esempio di approccio che non riceve tutta l’attenzione che meriterebbe, spiega ancora Frisoni, è la psicoeducazione dei familiari. Ossia una formazione specifica rivolta ai caregiver e mirata a fornire loro le conoscenze necessarie per gestire al meglio i disturbi del comportamento che un’ampia percentuale di malati di Alzheimer tende a sviluppare, e che spesso sono estremamente impattanti sulla qualità di vita di pazienti e familiari: dall’irritabilità, ai disturbi del sonno, all’apatia, alla depressione, fino alle vere e proprie psicosi.

“La psicoeducazione è un intervento che costa tanta energia e tanti soldi - conclude l’esperto -, perché richiede personale ben formato che passi ore e ore con il familiare per cercare di capire in che circostanze si sviluppa il disturbo del comportamento, quali situazioni ambientali lo innescano e in che modo possono essere modificate per ridurne la frequenza, o quando e se è necessario ricorrere agli psicofarmaci. È un approccio che richiede un monitoraggio se non quotidiano, quasi, e che può avere una grande efficacia”.

La Repubblica

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