L’eleganza è una forma di calma. Parla Giuseppe Ignazio Loi

Foto Ansa
il foglio della moda
Come farsi rivelare molte verità sulla moda da un ottantacinquenne che ha sempre fatto il pastore e che da due mesi è ricercatissimo sulle passerelle e sui red carpet, testimonial per Antonio Marras e protagonista di “La vita va così”
Ci sono volti che sembrano generati dal vento più che dal tempo. Quello di Giuseppe Ignazio Loi, ottantaquattro anni, pastore di Terralba paesino a venti chilometri da Oristano, appartiene a quella genealogia di uomini che non si muovono per arrivare, ma per restare. Un giorno la moda e il cinema si sono accorti di lui, ma invece di cambiarlo, ne sono stati cambiati o, in modi diversi, ne sono rimasti influenzati. Il suo volto, scavato e quieto, è al centro del nuovo film di Riccardo Milani, “La vita va così”, uscito per Medusa Film e PiperFilm e molto amato dal pubblico. La pellicola si ispira alla vicenda di Ovidio Marras, il pastore contadino che per anni si oppose alla costruzione di un gigantesco villaggio turistico vicino alla spiaggia di Tuerredda, nel Sud della Sardegna. Loi interpreta Efisio Mulas, alter ego di Marras, accanto a Diego Abatantuono, Aldo Baglio, Geppi Cucciari e Virginia Raffaele, per la seconda volta nel ruolo di una donna che lotta per la difesa di una dimensione sociale rurale dopo “Un mondo a parte” che ebbe tanto successo e che dunque deve aver suggerito a Milani una sceneggiatura parallela, peraltro con la stessa protagonista. Ma per Loi, prima ancora del cinema, c’è stata la moda.
Alla sfilata primavera/estate 2026 di Antonio Marras, a Milano, negli ex Magazzini Generali allestiti con montagne di sabbia, sale e libri, in riferimento al viaggio che, nel gennaio del 1921, lo scrittore D.H. Lawrence e la moglie Frieda von Richthofen, la “Queen Bee” di infinite lettere e racconti, fecero lungo le coste e l’entroterra della Sardegna e che venne poi racchiuso e sublimato nel diario “Sea and Sardinia”. In quello scenario che rileggeva un episodio storico con i toni della leggenda, o dello spettacolo teatrale che è orai la cifra vera dello stilista sardo, Loi è entrato con passo lento ma deciso, indossando una giacca verde oliva ricamata a mano, senza alcuna pretesa se non quella di essere riconosciuto e legittimato per il pastore che è. E con lui, sulla passerella, sono entrate la montagna, i pascoli, le mani ruvide e le stagioni, la Sardegna più profonda, non quella da cartolina, ma quella che resiste. Il suo cammino è diventato così una liturgia laica, un atto di restituzione. Marras lo ha elevato ad ambasciatore di una bellezza che non si misura in metri di tessuto, ma in centimetri di verità: una bellezza che non si fotografa, ma si ascolta. In quel gesto, nell’apparente semplicità di un uomo che attraversa lo spazio del lusso senza esserne inghiottito, c’è stata una presa di posizione, perché, come si sa, la moda può essere politica, poetica e civile, uno spazio di custodia, non di consumo. Sul finale della sfilata, Marras e Loi hanno salutato insieme il pubblico, mentre nell’aria risuonava “Questo nostro amore” di Rita Pavone, scelta come colonna sonora conclusiva. Il momento, sospeso e dolcissimo, ha finito col trasformare la passerella in racconto, la lentezza del pastore misura del tempo e la bellezza memoria. “Per me, quello era un vestito come un altro", racconta Loi al “Foglio della moda” con assoluta serietà. “Non mi sentivo fuori posto, anzi. Ho pensato: cammino e basta, come ho sempre fatto nella vita. L’eleganza, se esiste, è una forma di calma”. Qualche settimana dopo, con lo stesso passo lento è tornato sul red carpet della ventesima edizione della Festa del Cinema di Roma, dove “La vita va così” era appunto il film di apertura, e incontrandolo, è parso evidente che l’idea stessa di apparire gli resti estranea. “Non capisco niente di moda”, sorride mostrando la sua giacca in velluto nera con i fiori. Ricorda nel tessuto quello di noi uomini sardi, ma non andiamo in giro così, anche se mi piacerebbe. Marras mi ha promesso che me ne farà una”. Aggiunge: “La mia è stata una vita tutta casa/lavoro, anzi, tutta campagna: per me, i vestiti sono solo degli stracci necessari”, senza sapere che, almeno da mezzo secolo a questa parte, per i modaioli è un vezzo definire così i vestiti. Agli abiti, Loi ha preferito “abitare”, più che recitare, il suo personaggio e tutto, sentendolo raccontare, pare sia stato molto semplice. “Ho letto la sceneggiatura, ma non mi sono sforzato di imparare tutto a memoria. Mi veniva da dentro. Ho fatto per settant’anni il pastore: la terra o la senti o non la senti, non puoi fingere. E così ho recitato con le parole che mi sentivo di dire, senza finzione. Poi ho ho ricevuto la telefonata di un cugino di Terralba che mi ha messo in contatto con il gruppo di lavoro di Riccardo per i provini ed è così che è cominciata questa storia bellissima”.
Dopo averlo osservato, il regista lo ha voluto subito, intuendo che quell’uomo, con i suoi silenzi e i gesti essenziali, avrebbe racchiuso la misura che il film cercava. “È stato tutto naturale, mi sono divertito tantissimo”, continua Loi. “La scena che mi è rimasta nel cuore è quella in cui mi propongono di vendere la terra e io li respingo. In quel momento mi sono rivisto. Quando dico di no, lo dico sul serio”. Dirlo, è la cosa più complicata, gli facciamo notare. E lui: “Per me è il contrario. Mi viene facile dire di no, è la mia forma di libertà”.
Dopo le riprese è arrivata la notorietà con Abatantuono che lo ha soprannominato “il De Niro di Terralba”. “All’inizio pensavo scherzasse, poi ho capito che era davvero contento del mio lavoro”, confessa Loi che alla prima romana si è commosso più volte. “I flash sul tappeto rosso erano talmente forti da accecarmi. Nel tragitto verso la sala chiudevo gli occhi e quelle luci mi sembravano stelle. Mi sono emozionato tre o quattro volte. Quando sono partiti gli applausi non ci credevo. Penso che riguarderò il film tutti i giorni, anche se ormai ce l’ho nella mente”. Eppure, dietro l’emozione, resta un uomo che non si lascia abbagliare. “Domani torno alla mia campagna”, ha detto dopo la cena di gala all’hotel St. Regis e lo ha fatto davvero, deludendo le organizzatrici di colazioni e cene in centro, ai Parioli o sull’Appia Antica, che nel gioco neanche troppo crudele delle figurine sociali, il “celo/manca”, avrebbero molto graito il pastore archetipico. “La mia casa è in mezzo ai campi e lì sto bene, circondato dai miei gatti e dalle mie piante, quella del melograno è la mia preferita. Vivo da solo, ho solo mia sorella e una nipote che sta a Cesenatico. Se sono in compagnia sono contento, ma se sono da solo, sono contento lo stesso. Non mi manca niente: ho la mia pensione e un po’ di soldi ricevuti dal film, ma non è quello che conta”. Un paesaggio, il suo, che ritroviamo sul suo volto sembra contenere il Campidano intero, la più vasta pianura della Sardegna con il suo vento, la sua pietra e la sua luce che cambia a seconda delle ore del giorno. Quando nel film pronuncia “Custa est domu meu”, Loi non difende un confine, ma un equilibrio fragile e sacro tra l’uomo e la terra. La sua parabola dal gregge al set, dalla campagna alla passerella ci racconta molto più del previsto. In un mondo che idolatra la visibilità, lui rappresenta la forza della discrezione, perché è un uomo che entra nel circuito della fama senza dissolversi in esso. Il suo potere è nella sottrazione. nella capacità di restare fermo, anche mentre tutto intorno si muove. “Dal mio mestiere ho imparato che il coraggio è nel carattere”, dice. “Da ragazzo ne avevo tanto e non l’ho perso. È quello che mi tiene in piedi, come le pecore nella tempesta". Nel suo modo di stare al mondo si riconosce quella “profondità semplice” di cui parlava Merleau-Ponty: la verità che resiste al rumore.
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